13 Agosto, 2019 - Nessun Commento

CASTELLONE E MOLA UNA FORMIA CHE NON MUORE

CISTERNONE-CIAVOLELLA-03Tra I ricordi più belli che conservo della Formia dei decenni passati, a partire dal dopoguerra, ci sono i pescatori di Gaeta che tiravano la sciabica a Vindicio e rivendevano il pescato alle poche famiglie che abitavano la piccola spiaggia occidentale; il salto che dovevamo fare da un moncone di parete all’altro dell’ex Istituto scolastico di Piazza delle Poste, che i Tedeschi avevano raso al suolo; le lunghe, inutili e socievoli passeggiate in via Vitruvio, percorsa dalle carrozzelle a cavallo che sostavano in piazza della Vittoria, e che erano ancora un necessario servizio di trasporto pubblico; e l’attraversamento del rio Santa Croce, che ci gelava i piedi, ma era trasparente come un vetro e ci si poteva fare il bagno; e l’odore della zagara alla fioritura delle decine di agrumeti che accompagnavano il tratto tra Rialto e piazza Mattej, e che oggi sono sepolti sotto anonimi anzi brutti palazzi; e il mozzicone di ponte di Rialto sopravvissuto ai bombardamenti americani: non era largo più di un metro e noi lo percorrevamo senza paura e senza esitazioni, scavalcando il torrente del Rio Alto, per raggiungere la scuola media degli Olivetani a Castellone. E’ rimasto ancora là, anche se sostituito da una gettata più a valle. Ma queste sono solo alcune delle cose che ricordo di una Formia demolita ma felice, con poche case, ma linda e ordinata, che sapeva davvero di villeggiatura estiva. Non avevamo un soldo in tasca, ma eravamo felici; c’era solo il divertimento del cinema Miramare che, d’estate, si trasferiva nella piccola arena all’aperto; c’era anche il cinema Caposele, ma era un po’ più su. Ma a noi ogni giornata passava nella spensieratezza e dopo aver studiato. Non avevamo biciclette, né smartphone (e neanche i telefoni a gettone), ma la Villa Umberto I era un’oasi da esplorare, col vicino Bar Impero. E Largo Paone andava prendendo la forma di una enorme piazza costruita con le macerie degli edifici demoliti dalle cannonate americane, sottraendo al mare un grosso tratto prospiciente Largo Paone. Sono andato a rivedermi il bel libro, pieno di nostalgia, di Renato Marchese: “Quanto eri bella Formia”, un titolo che riportato al presente suonerebbe opposto.

FORMIA TORRE DI CASTELLONE20160417_200154 (1)

Ritorno spesso a Formia, per ragioni di lavoro e per motivi personali. Ultimamente ho sbagliato per due volte ad imboccare una di quelle orribili strane asfaltate che si arrampicano con curve impensabili e pendii da montagna lungo le coste più alte della collina di Castellone. Visitando Santa Maria la Noce mi sono accorto che, a mezza collina, sta sorgendo un enorme villaggio/paese, lungo scoscendimenti impervi, e mi sono chiesto come funzioneranno le infrastrutture (acqua, fogne, strade, parcheggi) e soprattutto cosa ne sarà di Castellone, che dovrà sorbirsi un’altra cospicua razione di veicoli. Via degli Olivetani, la strada che da Rialto sale a Castellone, è già diventata una circonvallazione esterna per chi vuole evitare il tratto alto di Via Vitruvio, specie i sabati e le domeniche estive, quando un enorme e quasi immobile lumacone di auto proviene da Gaeta e dalla Flacca e immobilizza ogni attività della ormai invecchiata Via Nuova, nata non per le decine di migliaia di automezzi che la occupano in ogni momento del giorno e della notta. Mi sono anche chiesto se , continuando ad occupare la sua preziosa collina, e salendo verso il Redentore, Formia non voglia precorrere i tempi che i climatologi le assegnano: quelli di finire sotto l’acqua marina per almeno sei-sette metri, entro la fine del secolo per l’innalzamento del livello del mare. Ma mi sono anche chiesto come sopravvivano gli abitanti di quegli orrendi scatoloni di cemento piantati lungo le cose di quelle colline, soffocati da altri scatoloni, senza parcheggi, con strade che a stento tollerano un doppio senso di marcia; e che ragione hanno, ormai, i turisti per venire a Formia, una Formia affastellata, imbruttita, senza uno scatto di genio edilizio o di gusto del vivere in comune, circondata da un porto commerciale, da uno o forse due porti turistici pià quello proprio; aggredita dall’interrimento di Arzano. Anche Gaeta contribuisce a imbruttire il Golfo.

 

SAN ROCCOA Formia, ormai, non restano che due spazi degni di essere vissuti: via Abate Tosti che sta pian piano riconquistando una antica dignità abitativa ed anche di vita, ma basandosi su vecchie e ancor valide case; e un quartiere intero che è quello ottocentesco di Castellone, con provenienze romane e isolati edifici quattro-cinquecenteschi, qualche chiesetta, e una dignità di vita che gli altri Formiani possono solo sognare.

E allora mi immagino che al Comune – dove pure si sono progettati quartieri dal nome di Scacciagalline (non proprio il massimo) – si stiano dando da fare per rendere il Castellone un esempio di quartiere vivibile anche se la maggior parte delle case è stata costruita nel secondo Ottocento, come dicono orgogliosamente le chiavi di volta che reggono le arcate di accesso alle case. Immagino che il Comune stia dando un premio a chi vi abita perché continui a restaurare quelle decorose e romantiche case o bassi; che stia provvedendo a vietare l’accesso a tutto le auto, scegliendo una sola strada per i rifornimenti e solo per essi, e non per uso parcheggio. Penso che tecnici ed amministratori stiano pensando belle soluzioni per valorizzare i piccoli e grandi tesori di arte antica che impreziosiscono il quartiere (il Cisternone meraviglioso, la residua torre Gaetani, il Castello-anfiteatro romano, la cattedrale di S, Erasmo, le chiesette di S. Anna e di S. Rocco e soprattutto la serie di vicoli che si intrecciano in una fantasia costruttiva che tocca vertici di straordinaria bellezza e suggestione); e stia dando una mano ai pochi ma qualitativi esercizi commerciali che animano il borgo, la macelleria, il forno, il ristoratore, la pizzeria, l’enoteca. Ma è proprio vero quello che sto immaginando oppure è un sogno che farei meglio ad abbandonare?

 

 

 

 

18 Luglio, 2019 - Nessun Commento

NORD E SUD, PERCHE’

L’ultima notizia viene da Milano Marittima (Romagna). Invito tutti a leggere su Google le notizie sulla tromba d’aria dell’11 luglio e sui restauri eseguiti entro la mattina del 12 luglio. E’, purtroppo per me che vivo da sempre nel Centro-Sud, la vera dimostrazione del perché c’è un Nord e un Sud. E non faccio ricorso al ben più drammatico e micidiale terremoto del Friuli del 1976, del quale non restarono tracce nel giro di pochi mesi, grazie alla mobilitazione di tutti i cittadini e di tutte le Amministrazioni. Là piansero soltanto per un paio di giorni. Poi si tirarono su le maniche delle camicie e cominciarono a darci dentro per ricostruire. E prima ancora per seppellire i tanti morti, sgombrare le macerie e tirare su muri, opere e servizi. A Milano Marittima i giornali dicono che in 9 ore è stata cancellata la immagine del disastro fatto dalla tromba d’aria. Sapere come hanno fatto? Lo leggo dai giornali: hanno mobilitato e fatto lavorare imprenditori, squadre di pronto intervento già organizzzate, bagnini e stradini, giardinieri e architetti. Politici e volontari civili, clochjard e milionari. Si sono tutti messi a disposizione, sotto un centro di coordinamento messo in piedi là per là.

Con qualche eccezione, anche l’Italia del Sud fece lo stesso alla fine della guerra fascista. Cisterna, Formia, Itri, Terracina  chiesero i danni di guerra che dovevano avere, ma prima ancora che essi venissero messi in discussione, le famiglie si erano tirate su le maniche e avevano cominciato a darci sotto. E non chiamo a fare da esempio la Londra del dopo battaglia aerea che la polverizzò; né voglio ricordare Coventry, le cui distruzioni hanno fatto coniare il nuovo verbo “coventrizzare”, che significa distruggere alla radice. Coventry era ridiventata una città già qualche anno dopo la fine della guerra che l’aveva ridotta in cenere. Per non dire delle città della Germania.
Perché dico che queste cose spiegano perché in Italia vi sia un Nord e un Sud? Nord significa che chi deve essere risarcito farà la sua brava domanda, ma intanto si dà da fare e comincia a metterci del suo, a cominciare dalla fatica materiale, dalle idee, dalla voglia di riprendere. Il Friuli e Milano Marittima possono fare qui da esempio.
Il Sud, di fronte ad un evento catastrofico, abbassa le braccia e comincia a lacrimare. Poi si lascia andare a lamentazioni da prefiche, ad invocare stati di calamita e disastri naturali. E si siede ad aspettare. Serve forse come dimostrazione il terremoto che ha colpito il Centro Italia nel 2016 e 2017? Le macerie debbono ancora essere in gran parte rimosse. Le case del centro storico dell’Aquila sono ancora da assestare, se mai lo saranno. Molto è stato fatto, non si può negare l’evidenza. Ma a Messina esistono ancora i terremotati di 111 (centoundici!) anni fa. O non è vero? Consoliamoci con Terracina che, devastata dal ciclone del novembre 2018, è stata rimessa in ordine in una settimana. Onore al merito.
So di dire cose molto spiacevoli. Ma ditemi che non è vero. Ditemi che nel Centro Sud non abbiamo perduto la fiducia in noi stessi e ci siamo affidati solo alla pratica della lamentazione. della richiesta del “contributo” o della invocazione della pietà.

A Latina la gente che la abita scarica sui marciapiedi bidè, water, cassetti e ante di armadi smontati, specchiere, divani sgarrupati che vengono rifiutati anche dagli ultimi, brande, sedie a sdraio, bottiglie di vetro (un anno fa ne contai 30, erano mezze-botticelle,
su un marciapiede di via Bruxelles). E i fuochi appiccati ai pezzi di terra inedificati che si trovano in centro e non vengono né recintati, né puliti, il fuoco che venne appiccato portò alla luce cumuli di inerti e miliardi di lattine abbandonate. Che pena!

A mio avviso, ecco perchè c’è un Nord e c’è un Sud. Anzi, il Sud adora il Nord indicandolo come un esempio da seguire. Ma non lo segue. Non solo: non lo segue e gli dà anche i voti, anche quando il Nord – dopo essersi fatto costruire a spese di tutti i contribuenti una gigantesca ragnatela di autostrade e di ferrovie – si lamenta che i “suoi” soldi debbono essere spesi in casa. Perché, prima? Ma il Nord ha ragione a sbeffeggiare il Sud, se il Sud dà i voti ai rappresentanti del Nord che fanno i fatti del Nord. Ma vi siete accorti che le richieste di autonomia regionale hanno ricreato il Lombardo-Veneto ed hanno annientato il Risorgimento?

Abbiamo perduto come città la dignità di sentirci “cives”, e il dovere di denunciare e di sentirci offesi da questo sfacelo provocato dai cittadini. Per non dire di quei “cittadini” che boicottano chi amministra abbandonando rifiuti in ogni dove per dispetto, tagliando persino le bocchette delle docce messe appena il giorno prima al Lido, parcheggiando davanti  agli scivoli per disabili dei marciapiedi e sulle strisce pedonali. “Ma debbono pensarci i Vigili Urbani”, dice qualcuno. No, dobbiamo pensarci noi se qualche nostro vicino di casa è cafone e prepotente. O se la prepotenza è arrivata persino a concepire l’idea di costruire una piscina privata dentro il cimitero di Sezze!

Un consiglio al Comune: apriamo corsi di educazione civica: chi dimostrerà di averli frequentati con profitto avrà come premio
l’abbuono di una rata di Tari. Il Comune ci guadagnerà.

4 Luglio, 2019 - Nessun Commento

LATINA, LA CITTA’ DOVE SI VIOLA IL CODICE DELLA STRADA

sosta selvaggiaNel libro “La Napoli di Bellavista”, uno dei primi deliziosi libri di De Crescenzo, c’è un capitolo ancor più delizioso dedicato alla descrizione del modo di guidare a Napoli. Ad esso ho ripensato tante volte osservando da automobilista e da pedone il caotico traffico di Latina. Esso non è tutto di produzione propria, fatto in casa. Al contrario, nasce dal generoso contributo dei modi di guidare dei cittadini autoctoni e di quelli alloctoni che da tutti i paesi della provincia convergono su Latina per occupare incarichi di lavoro presso i vari enti pubblici o per servirsi di quegli uffici pubblici come utenti. Ce n’è anche una porzione non secondaria che viene qui per affari, e c’è anche qualcuno che approfitta del viaggio per scaricare nei già occupati cassonetti dei nostri rifiuti anche rifiuti “impropri” che si porta appresso perché nel paese d’origine lo riconoscerebbero subito. Qui ogni tanto prendono qualche multa, anche salata, ma soprattutto esibiscono il loro disprezzo per la città capoluogo fornendo il loro bravo contributo alla maleducazione stradale, merce già ben prodotta in città.

Latina è ormai divenuta un borgo di frontiera. Chi vi abita e chi viene da fuori sa, innanzitutto, che può praticare ogni tipo di guida, tanto non vi sarà nessun Vigile Urbano (ma neppure altra gente in divisa) che contesterà loro un cattivo modo di stare alla guida. Proviamo a elencare i “numeri” che più di frequente vengono eseguiti dagli automobilisti a Latina:

a) Non rispettare i limiti di velocità. Si preferiscono, di solito, i luoghi più affollati, per stimolare la produzione di adrenalina. Particolarmente temuti sono i piloti che al semaforo verde partono sparati e non si fermano davanti a nulla. I più temuti di tutti sono i motociclisti e gli scooteristi che scendono dalla collina a bordo delle loro moto rombanti, che “stirano” soprattutto di notte quando ritornano nei rispettivi paesi di provenienza, lasciando dietro di sé il rumore delle loro urlanti marmitte

b) Occupare le strisce pedonali come parcheggio preferito. C’è una zona della città (viale dello Statuto) dove questo sport è praticato con singolare insistenza. Se il Comune vi distaccasse un vigile urbano al giorno ricoprirebbe tutti i buchi del bilancio a forza di multe

c) Prendere di mira i pedoni che osano attraversare sulle strisce pedonali. Sono vittime predestinate anche perché trovano solitamente i due lati estremi della strada occupati dalle auto in sosta vietata sulle stesse strisce. Fortunatamente i pedoni di Latina hanno sviluppato doti sportive e di scatto che solitamente li salvano

d) Parcheggiare il più possibile in prossimità di un incrocio (anche sui marciapiedi), di una curva, di un ostacolo. In questo sono fortemente aiutati dal Comune che ha fatto disegnare strisce blu di parcheggio che gridano vendetta davanti al Codice della Strada

e) Parcheggiare non parallelamente al marciapiede ma trasversalmente ad esso. E’ più facile ed evita qualche manovra di troppo

f) Scendere e salire dalla macchina in sosta spalancando gli sportelli e lasciandoli aperti, in modo che chi sopraggiunge possa andare a sbatterci contro. E magari approfittando per svuotare a terra il portacicche dell’auto.

g) Evitare accuratamente di segnalare il cambio di direzione. Le cosidette “frecce direzionali” sono l’attrezzo più integro di una macchina pontina. Non viene usato mai. C’è qualcuno che vuole risparmiare elettricità pensando che l’Enel fatturi anche quella che proviene dalle batterie

h) Impegnarsi in audaci e spericolate conversioni a U al centro di strade e incroci, mettendo alla prova l’intuito degli automobilisti che sopraggiungono e i loro tempi di reazione alla frenata

i) Parcheggiare in doppia o tripla fila specialmente sulla circonvallazione. Questa operazione è particolarmente gradita ai furgoni che scaricano merce ai negozi, ai postini che debbono consegnare pacchi di posta ai condomini, ai vettori di pacchi e pacchetti che debbono fare la consegna a domicilio

j) Usare il contrassegno di invalidità per occupare i pochi “stalli” disponibili. Questa pratica si intensifica specialmente il martedì e il venerdì che sono giorni di udienza al Tribunale di Latina e così clienti e professionisti possono non fare a piedi più di cinquanta passi per raggiungere il loro posto di lavoro. Non importa se chi abita da quelle parti di passi deve farne qualche centinaio per raggiungere la propria abitazione.

Potrebbe continuarsi all’infinito elencando tutte le violazioni del Codice della Strada, tanto mai nessuno interverrà a regolamentare il traffico. Il Corpo dei Vigili Urbani, con l’eccezione di poche unità, è fatto di persone che soffrono a stare in piedi e a camminare su e giù per i marciapiedi e a litigare con gli automobilisti scorretti. Hanno fatto un concorso specifico per fare proprio quelle cose, ma poi si ammalano. E i medici certificano la loro malattia, per cui nessuno potrà mai dire che “ci marciano”. Non marciano affatto, Stanno seduti dietro le scrivanie a fare lavori per i quali non hanno fatto alcun concorso.

 

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