Caro Antonio,
scusami se ti scrivo a distanza di diversi giorni dalla tua trasvolata in un altro mondo, salutata da una folla trabocchevole sia nella cattedrale di Latina che nei giardini esterni dove erano stati relegati quelli che non erano in chiesa, per incapienza.
(il disegno è di Fabrizio Gargano per una delle panchine di Capo Portiere)
Volevo scriverti già da tempo, quando avresti potuto rispondermi al tuo modo, per scherzare con te. E difatti ho trovato tra le mie carte una bozza di lettera che ti stavo inviando, ma che poi non ti ho mandato. Ne riproduco una parte. Leggevo le tue “Spigolature parecchio al di sotto del bene e del male”, e m’è capitata sotto l’occhio una invettiva, scritta in questo modo: “vammorìammazzato”. E mi è venuto un dubbio. Io ho sempre detto “vammoriàmmazzato”. E mi sono chiesto se la lezione corretta è quella tua, con l’accento sulla i, oppure quella con l’accento sulla a. Forse potrebbero essere due lezioni altrettanto corrette, la mia veniente da Cisterna, la tua dalla palude. Ma dire “vammorìammazzato” mi sembra quasi una leziosità, rispetto alla grevità del “vammoriàmmazzato”, dove la voce, scivolando sulla i, plana pesantemente sulla a, che diventa il centro dell’invettiva, quasi che essa non si sintetizzi soltanto nel “morì”, ma nel morire “ammazzato”, che è un po’ peggio. Che ne dici?
Quella lettera non te l’ho mandata più. Il perché è presto detto: con te si poteva scherzare solo se tu eri in posizione di superiorità. Se avvertivi il timore di un tranello o di un passo falso reagivi in un modo che spesso era incontenibile e impossibile a condividersi da un borghese piccolo piccolo come me.
Perché, allora, ti scrivo questa lettera? Perché ti ho frequentato, ma non troppo; ti ho letto, ma non tutta la tua produzione: mi hai
chiesto due volte “aiuto” per arricchire, con notizie che tu non avevi, i tuoi bei libri e mi hai anche cortesemente ringraziato negli
stessi libri, ma forse (è una mia sensazione) ne avresti fatto volentieri a meno. E ti sei inventata la favola dell’autocarro
sprofondato con tutto l’autista nel sottosuolo fangoso di quella che oggi è Piazza del Popolo. Sappiamo tutti che è una favola, ma tu
l’hai difesa come un fatto reale, facendolo credere a tanti bambini delle elementari di via Sezze, dove eravamo stati invitati per parlare con loro. Ma con la forza delle cose ben dette.
Tu hai inventato un modo di scrivere che si confaceva molto alla tua personalità: leziosamente popolare, spiccio, un po’ dialettale,
facile, comprensibile e agevolmente leggibile quasi da tutti. E’ un linguaggio che ha fatto breccia rapidamente. Lo avevano usato molto gli scrittori americani che volevano entrare subito nelle cose e dirle come le avresti dette tu. Era, però, tanto semplice che, dopo qualche tempo, diventava un po’ usuale e noioso. Io lo reggevo – divertendomi a leggerti – per un libro, forse anche due. Poi diventava ripetitivo e non mi dava più lo stesso gusto delle prime volte. Nei saggi e nei racconti per le riviste ti scatenavi. Forse sono troppo pretenzioso a giudicarlo ripetitivo, ma molti condividono questa mia impressione di lettura. Ma con quello stile hai scritto “Canale Mussolini”: è una storia bella. Tu lo hai definito dicendo che era il libro della tua vita. Ed è giusto che abbia ricevuto il Premio Strega, ed è giusto che abbia venduto tante copie e procurato alla Mondadori tante ristampe, e a te tante interviste, sui giornali, in radio, alla tv, fino a farti diventare il “portavoce” di Latina. Qualunque cosa sia successa a Latina negli ultimi tre o quattro anni era a te che si rivolgevano i colleghi giornalisti per sapere che cosa si pensava a Latina. E qui hai approfittato un po’ della tua posizione privilegiata per farci dire anche cose che non abbiamo mai pensato. Ma a volte non era colpa tua, ma dei colleghi giornalisti che per pigrizia hanno fatto inchieste intervistando solo te. E io soffrivo, a volte, delle cose che dicevi e che non condividevo, ma che finivo per subire passivamente perché tu eri Antonio Pennacchi ed io nessuno. Ne hai un po’ approfittato.
Poi hanno cominciato ad intervistarti anche per avere giudizi, consigli, oracoli, e qui ne hai approfittato ancora di più.
L’ultima è capitata quando Paolo Nori, candidato al Campiello col libro “Sanguina ancora…”, (Mondadori) dedicato alla figura dello scrittore russo Fjodor Dostojevskij ti ha chiamato da Bologna per chiederti cosa pensavi dell’autore di “Delitto e castigo”, dei
“Fratelli Karamazov”, de “L’idiota”, “Il giocatore”, “Memorie del sottosuolo” e tanta altra roba; e alla domanda di Paolo Nori (uno che a volte ti assomiglia) hai risposto netto e secco: “E’ un testa dicazzo!” (testuale). Ora, Dostojevski avrà anche avuto una vitaccia ed avrà pure commesso tanti sbagli, ma credo non meriti tale icastico giudizio. Ma tu eri fatto così e a te tutto si perdonava. Anche certe esagerazioni, e sciocchezze un po’ presuntuose come questa. Oppure non avevi letto nulla di lui?
No, non credo che tu non lo avessi letto, se è vero che hai fatto l’Università. Anzi hai avuto la giusta pretesa di farla, e non potevi averla fatta senza leggere scrittori di quel calibro e di quella testa dura e intelligente. Che volessi fare l’Università lo ha detto a tutti
anche il tuo ex datore di lavoro degli anni Sessanta, Del Pelo, morto prima di te, che, disperato per il fatto che tu lo tormentavi
inventandoti mille contestazioni al “padrone”, scioperi, blocchi di turni, bandiere al vento ecc. che mettevano sottosopra la sua azienda, la Fulgorcavi di Borgo Piave, ti chiese cosa volevi per lasciare in pace lui e il suo lavoro. E tu gli dicesti che volevi il diritto a studiare all’Università. ma in pace, senza la rottura di scatole di turni lavorativi che non ti consentivano di studiare, col tempo che ci voleva, di leggere i classici che dovevi leggere, di scrivere come avresti voluto, perché tu non sei uno scrittore casuale, ma uno che voleva diventare scrittore (e lo sei diventato). In cambio della sua pace, tu avresti dovuto trovare la stessa pace a casa tua. In cambio avresti dovuto scrivere la storia della Fulgorcavi. Era lo scambio che facesti con Del Pelo e che tu stesso hai raccontato in giro. L’Università l’hai fatta e con profitto, perché eri una persona intelligente, ma la storia della Fulgorcavi non la conosce nessuno. Almeno quella scritta da te. E in questo c’è anche un po’ di compiacimento nel farti chiamare “lo scrittore-operaio”. Scrittore lo sei stato, operaio un po’ meno. Ma tutto fa brodo.
Se uno ti avesse rimproverato questa inadempienza (ma lo era?) tu gli avresti risposto che era la giusta “presa per il culo che un padrone merita”. Ma era lo stesso padrone che ti ha consentito di studiare.
Questo era il tuo carattere, ribelle e un po’ esibizionista, fatto per stupire i tuoi interlocutori. Lo dimostra la tua variegata vita
politica e sindacale. I tuoi fratelli Gianni e Laura sono stati rispettivamente ottimo giornalista (da te molto amato) e ottima
rappresentante del PCI e studiosa di economia, sempre coerenti fino in fondo. Tu, invece, hai avuto molti tormenti: ti sei iscritto al
Movimento Sociale Italiano-MSI, neo fascista, erede di quel partito fascista che aveva imbarcato la tua famiglia su un treno per mandarla a soffrire in Agro Pontino durante la bonifica anni Trenta (ma tu non hai fatto la bonifica); poi sei passato anche tu al Pci, come i tuoi fratelli, poi ci hai ripensato e sei andato nel Psi e così di seguito per quasi tutta la tua purtroppo non lunghissima vita. Eri esponente della Cgil e facevi gli scioperi sventolando bandiere rosse e gridando slogan anche contro chi “osava” darti una mano.
Io ero giornalista de “Il Messaggero” di Latina quando tu organizzavi manifestazioni a raffica. E noi ti davamo una mano perché ci sembrava giusto che Latina raggiungesse una economia industriale giusta e onesta (era quella l’epoca della industrializzazione selvaggia, disordinata e padronale) integrando l’economia agricola della quale viveva insieme alla Provincia tutta. E tu un giorno venisti sotto le finestre de “Il Messaggero” in via Diaz, a urlare e fare urlare il disprezzo per noi che ti difendevamo. E non capivamo cosa volessi, perché ti rivolgessi contro di noi. Non ci volevi come amici? Bene, ognuno per sé. E non ti fummo più amici. Ti ignorammo, e tu rosicavi, perché tu avresti preferito essere trattato a pesci in faccia, ma non tolleravi di non essere nominato sui giornali. Fu allora che lasciasti la Cgil e passasti alla Uil, che all’epoca era considerata amica dei padroni o poco meno.
La tua vita è stata davvero un continuo passaggio, segno della tua irrequietudine, non placata neppure dai primi libri che scrivesti e
che ti dettero anche la soddisfazione di un Premio Napoli con “Il fasciocomunista” (che eri tu). Ricordo che partecipavi a tutti i
convegni, comizi, riunioni dove si poteva dire qualche cosa in pubblico. Avevi già indossato i tuoi emblemi: cappello inchiodato in
testa e sciarpa rossa al collo. Ma cominciavi a farti notare, perché tu eri bravo anche se con un caratteraccio esibizionista e con una parola di critica o di sfida sempre sulla bocca.
Poi venne il successo, venne “Canale Mussolini”. Indovinasti il libro e il titolo della tua vita e mi dicesti una volta che la vita ti era
cambiata. Ed eri felice, ma senza darlo a vedere, perché i denti continuavi a tirarli fuori. Fu la gloria, la giusta gloria. Ma non ne
volesti godere come la gode uno qualunque. In pace, in famiglia, con una nuova condizione sociale, apprezzamenti e pace nella tua campagna. Non ti sembrava una vita vera. Avevi bisogno dell’arena nella quale toreare. I tori erano gli altri. Anche quelli che cercavano di darti amicizia.
Mi telefonasti una sera per chiedermi di incontrarci. Ti dissi subito di si. Mi sentivo anche io lusingato. Cominciarono lunghi racconti sulla guerra in terra pontina. Ma non ebbi mai la soddisfazione di sentirmi compensato dalla tua approvazione. Di quella guerra non sapevi nulla, ma ad ogni mia risposta a tue domande tu opponevi subito una tua obiezione. Mi occupo di storia della guerra “pontina” dalla fine anni Sessanta, quando la guerra era finita da una quindicina di anni e i testimoni erano quasi tutti presenti e io ne avevo inseguiti e intervistati molti. E avevo letto alla Biblioteca Nazionale tutti i giornali italiani dell’epoca. E avevo letto alcune decine dei libri su quella guerra. Insomma, ne sapevo qualche cosa. Avevo scritto quattro libri che erano andati esauriti in poco tempo ma che non volli ristampare perché acquisivo ogni giorno notizie nuove e non mi andava di rieditare le stesse cose, le cambiavo.
Tu mi chiedesti molte cose e tu obiettavi novanta volte su cento. Mi contestavi, certo per tua sicurezza, tanto che giunsi a dirti: ma se non ti fidi di me, perché stiamo perdendo tempo? Ricordo che una volta mi chiedesti una notizia specifica ed io ti risposi sulla base di quello che sapevo, avevo sentito, avevo letto, avevo elaborato. Tu contestasti la mia risposta dicendomi: ma mia nonna dice un’altra cosa. La nonna era una gentile e affaticata vecchietta che viveva in casa e non si era mai spostata da dove abitava. Calai le braccia e mi arresi.
Non ci vedemmo più fino a “Canale Mussolini seconda parte”. Mi chiedesti di poterti dedicare un paio d’ore in una passeggiata per
parlare. Risposi di sì. Era estate. Mi fissasti un appuntamento alle quattro del pomeriggio. Si ripeté la scena. Scrivesti quello che ti
pareva più giusto (ma che me lo chiedevi a fare?), e mi ringraziasti anche su questo nuovo libro. Ma fu l’ultima volta. Probabilmente non facevo per te. Non soffrii di non poter più passeggiare per due ore alle quattro del pomeriggio di una estate pontina per le strade periferiche di Latina a parlare di cose che non ti garbavano.
Canale Mussolini secondo non ebbe lo stesso successo del primo, e non poteva averlo. Lo stile era talequale, le cose erano più o meno le stesse. L’audacia del titolo si era bruciata col primo libro. Mussolini e il suo canale non erano più una bestemmia, perché le generazioni nuove non hanno mai studiato il fascismo, né hannoconosciuto la guerra. E gli ultrà della Legione nera della curva sud non amano perdere tempo nelle letture.
Una sera mi lasciasti stupito: ti esibisti come ospite d’onore sul palco di un comizio elettorale in piazza del Popolo. Non so di cosa parlasti (ti seguii per tutto il tuo intervento), perché le tue parole non volevano costruire un concetto: erano, furono una pesante collezione di insulti, di parolacce pronunciate in una pubblica piazza, con un altoparlante che le ingigantiva.
Della tua attività politica mi è rimasta un’ altra curiosità. Fu quando provasti a prendere in braccio Maurizio Mansutti,
democristiano, e ti rompesti la schiena, già acciaccata. Volevi imitare Roberto Benigni che sollevò tra le braccia Enrico Berlinguer,
ma tu non considerasti che Mansutti non è l’esile Berlinguer. Ti augurai tra me e me con tutta la cordialità possibile di guarire. Sia
per evitarti dolori, sia per stare a schiena ritta. Dopo “Canale Mussolini seconda parte” non ci siamo visti più. Non mi hai cercato
più, né io ho sentito il bisogno di cercarti. E mi dispiacque. Non si buttano così le conoscenze. Poi avesti un nuovo sussulto di quando eri iscritto al Msi e giustificasti una squallida riunione per difendere un uomo politico che ha conosciuto il carcere, inventando un brutto e falso paragone, come avrebbe fatto un complice, non un amico.
Gli acciacchi ti hanno invecchiato prima di quanto meritassi. Persone con la tua intelligenza avrebbero potuto dare qualche cosa di più e di più vera. Ma te ne sei improvvisamente andato. Ed hai avuto la consolazione di uno splendido funerale. Con tanti amici e tanti finti amici. E con una folla che era la tua folla che ti applaudiva e ti rispettava. Era quello che avresti voluto. E l’hai avuto.
Un saluto affettuoso e un riposa in pace, Antonio. Ne avevi bisogno ed ora la starai sicuramente godendo.
Pier Giacomo Sottoriva