21 Dicembre, 2013 - Nessun Commento

IN MORTE DI ROMANO ROSSI

Il mio primo incontro con Romano Rossi fu, forse alla fine degli anni Cinquanta, allo stadio di calcio di Formia, che sarebbe stato intitolato al grande Nicolino Perrone. Io facevo il giovanissimo reporter sportivo per Il Messaggero; lui l’arbitro della partita di cui dovevo riferire. Gli arbitri, com’è noto, da noi svolgono un mestiere difficile, almeno come quello del CT della Nazionale di Calcio ed altri due o tre “mestieri” tosti. A sud, poi, è anche peggio. E, invece, quella “giacchetta nera”, che già cominciava a trascinarsi dietro la bella struttura fisica di cui era dotato, facendolo con agilità e grande consumo di energie, su e giù per il campo, ottenne un grande successo. Fischiava che si faceva sentire da giocatori e spettatori; e agitava le braccia e il corpo per spiegare di che genere di fallo si trattava in un modo che sarebbe apparso teatrale, se non fosse stato estremamente efficace, oltre che chiaro. Ricevette inattesi applausi dagli spettatori, e credo che sia stata l’unica occasione di questo tipo che mi è capitata. Poi ci siamo fatti grandi entrambi, e ci siamo rincontrati a Latina, dove Romano Rossi era il capo della redazione provinciale de Il Tempo, in cui rimase per anni con successo; ed io, appena arrivato nel Capoluogo, dopo aver vinto un concorso – era il 1962 – ebbi anche la ventura di essere nominato dal mio giornale (Il Messaggero) capo della Redazione provinciale, in sostituzione di Fortunato Ruotolo che aveva deciso di ritagliarsi un angolo giornalistico meno ingombrante nello stesso giornale. E poiché all’epoca, a Latina, Il Tempo e Il Messaggero si disputavano lettori a suon di scoop (visti da una parte) e di “buchi” (visti dall’altra parte), tra Romano e me nacque una sana competizione giornalistica che combattemmo per tanti anni, nel pieno e reciproco rispetto e stima. La scomparsa di Romano Rossi è, perciò, una perdita per Latina, perché, anche dopo essersi ritirato, era rimasto giornalista nella curiosità che lo animava, nell’attenzione ai dettagli e ai retroscena, nel sorriso sornione che uccideva tutte le cose che sembravano inutilmente “tragiche”, nel mantenere l’amicizia da compagnoni che abbiamo sempre avuto. Ciao Romano, ci dispiace che tu ci abbia lasciati, ma conserviamo di te un felice, bel ricordo.

 

 

18 Dicembre, 2013 - Nessun Commento

IL VESCOVO CROCIATA E’ DIVENUTO “PONTINO”

Il nuovo vescovo della diocesi di Latina-Terracina-Sezze e Priverno, monsignor Mariano Crociata ha preso possesso della sua nuova sede, compiendo una sorta di pellegrinaggio dalla porta nord (il santuario di Santa Maria Goretti, a Le Ferriere di Conca), attraverso la cattedrale di San Marco (una breve sosta) e fino alla chiesa del Sacro Cuore, adiacente alla Curia vescovile, scelta perché in grado di accogliere un maggior numero di fedeli. Accolto dai suoi nuovi amministrati, accorsi numerosi, monsignor Mariano Crociata ha celebrato messa ed ha ricevuto il pallio, segno del potere vescovile, dalle mani del suo predecessore, monsignor arcivescovo Giuseppe Petrocchi, che ha lasciato la diocesi pontina dopo ben 15 anni di permanenza fruttuosa e ricca di colloquio. La sintesi del suo sacerdozio pontino è simbolicamente e magistralmente rappresentata dal libro che ha raccolto gli atti del Sinodo diocesano, che ha il titolo Perché la nostra Chiesa sia “più-Una”, Libro del Primo Sinodo della Chiesa pontina (2005-2012).

 

 

10 Dicembre, 2013 - Nessun Commento

1947, QUANDO I CETNICI LIBERARONO A FORMIA LORO COMPAGNI CRIMINALI

DRAZA MIHAHILOVITCH

Confesso che se non me l’avesse segnalata l’amico Lorenzo Tonioli da Bologna, mi sarebbe del tutto sfuggito, nella mia pure tignosa ricerca di notizie sulla seconda guerra mondiale in terra pontino-aurunca, l’episodio cui sto per accennare. Esso nasce da un piccolo, modesto articolo apparso su un altrettanto piccolo giornale locale di tanti decenni fa. Si tratta del The Cairn Post, La Posta della Carnia, e reca la data del 22 aprile 1947. La notizia che viene data – in edizione inglese – è la seguente: Il titolo “Crininali cetinici liberati dopo un assalto a un treno a Formia”. Il testo, datato 22 aprile da Roma, è il seguente: “Un migliaio di simpatizzanti cetnici dell’ex generale Mihailovitch hanno preso d’assalto un treno nella stazione ferroviaria di Formia, hanno sopraffatto le guardie alleate e liberato 17 criminali cetnici. Un treno, che trasportava il migliaio di Cetnici da un campo nei pressi di Napoli verso la zona britannica della Germania, ed un altro treno che trasportava criminali cetnici nelle isole Eolie si sono fermati su binari adiacenti, e appena il migliaio sentì che il treno-prigione aveva a bordo colleghi connazionali, passarono all’azione. La polizia militare britannica e la polizia italiana sono alla caccia degli evasi, e ne hanno ricatturato uno”. Qui finisce il racconto, ridotto a poche righe, ma che contiene una straordinaria azione di assalto e liberazione di uomini malgrado la stretta sorveglianza militare esercitata dai Britannici. Del tutto sconosciuti i particolari: come sia stato possibile far sostare due treni con quel carico nelle immediate vicinanze; come sia avvenuta la scoperta da parte dei Cetnici che viaggiavano sui diversi convogli; come sia finita la caccia all’uomo. Eppure va sottolineato che siamo già al 1947, tre anni dopo la fine della guerra in quell’area. L’episodio dovette interessare soltanto le Autorità militari, perché non risulta da nessuna parte nella cronaca cittadina, malgrado il suo indubbio clamore. E qui non può che prendersene atto,

I Cetnici e la guerra nei Balcani – Ma chi erano i Cetnici? Per semplificare le cose – e sperando che non vi siano errori, si trascrive quanto ne dice Wikipedia. Dopo che l’esercito monarchico jugoslavo si arrese nell’aprile del 1941, alcuni dei soldati jugoslavi rimasti, per lo più ufficiali di nazionalità serba, si riunirono sotto il controllo del colonnello Draža Mihailović nel distretto di Ravna Gora, in Serbia occidentale, e costituirono il 13 maggio del 1941 l’Esercito iugoslavo in patria (JVUO, Jugoslovenska vojska u otadžbini; cirillico, Jугословенска војска у отаџбини, ЈВуО), fedele al re Pietro II in esilio e pronto a combattere l’occupazione tedesca. Tra il 1941 e il 1943 i cetnici ebbero il supporto degli Alleati. Il Time nel 1942 pubblicò un articolo in cui elogiava i successi dei cetnici e designava il loro comandante come unico portatore di libertà nell’Europa nazi-fascista. A volte i servizi d’informazione alleati attribuivano ai cetnici le azioni dei partigiani comunisti guidati da Tito. Sia Tito sia Mihailović avevano sulla testa una taglia tedesca di 100.000 Reichsmark. I cetnici erano contrapposti a 2 nemici principali: gli occupanti tedeschi e gli Ustaša da una parte, e i partigiani comunisti di Tito, ideologicamente avversi, dall’altra. L’Italia fascista non combatté i cetnici, ma si alleò loro in funzione antipartigiana e (segretamente) antiustascia, poiché l’Italia occupava tutta la Dalmazia rivendicata dagli ustaša. Nell’estate del 1941 l’attività di guerriglia aumentò e i nazisti risposero molto duramente contro la popolazione civile, con delle pene predeterminate: 100 civili serbi per ogni soldato della Wehrmacht ucciso e 50 per ogni ferito. I due movimenti antifascisti, cetnici e partigiani di Tito, dapprima collaborarono (a parole), mentre in un secondo tempo iniziarono a combattersi. Nell’autunno del 1941 i tedeschi iniziarono una pesante controffensiva nelle zone di Ravna Gora e Užice. Mihailović propose una tregua che venne rifiutata e i cetnici dovettero indietreggiare in Bosnia orientale e nel Sangiaccato. Qui vennero in conflitto diretto con gli ustascia. Nella parte meridionale della loro zona d’occupazione, gli italiani strinsero un’alleanza strategica coi cetnici contro i partigiani e (indirettamente) gli ustaša. I cetnici collaborarono anche con il governo fantoccio di Milan Nedić in Serbia. Alla fine i cetnici iniziarono a concentrare i loro sforzi contro le forze partigiane, perfino alleandosi con i nazisti in alcune parti della Bosnia e con gli italiani in Montenegro. Un obiettivo secondario di Mihailović era di preservare il maggior numero possibile di vite serbe, anche se questo voleva dire collaborare con il nemico, e uccidere decine di migliaia di civili musulmani e croati in Bosnia-Erzegovina e in Croazia (la Bosnia Erzegovina faceva allora parte dello Stato indipendente di Croazia) in risposta agli eguali eccidi degli ustascia croati. Gli alleati avevano inizialmente sostenuto i cetnici, ritenuti nazionalisti fedeli alla monarchia in esilio e quindi risolutamente antifascisti, invece dei partigiani comunisti legati ideologicamente all’Unione Sovietica. Un ufficiale inglese paracadutato, Bayley, se ne stava a Ravna Gora e trasmetteva agli Alleati le informazioni tendenziose che gli riferiva Mihailović, il quale vantava come proprie le azioni dei partigiani e minimizzava gli accordi di collaborazione con gli italiani. Nell’inverno 1943 un altro ufficiale inglese, Frederick William Deakin, venne paracadutato erroneamente fra i partigiani creduti cetnici secondo le informazioni imprecise trasmesse dal Bayley, e si trovò nel pieno della offensiva Weiss II proprio sotto il fuoco dei cetnici alleati in quell’occasione agli italiani ed ai tedeschi. Era stata pianificata l’invasione alleata dei Balcani e i movimenti della resistenza erano strategicamente molto importanti, bisognava decidere quale delle due fazioni supportare. Un certo numero delle missioni dello “Special Operations Executive” (SOE) furono mandate nei Balcani per studiare la situazione sul campo. Allo stesso tempo gli alleati rinunciarono all’invasione dei Balcani e invertirono il loro supporto dai cetnici, rei di collaborare con le potenze dell’Asse, ai partigiani comunisti di Tito. Alla Conferenza di Teheran del 1943 e a quella di Jalta del 1945 Churchill e Stalin decisero di dividersi a metà la sfera d’influenza sui Balcani. Il 16 giugno 1944 fu firmato sull’isola di Vis (Lissa) in Croazia l’accordo tra Tito e il governo monarchico in esilio, noti come Accordi Tito-Šubašić o “Accordo di Lissa” (viški sporazum). Il documento chiamava tutti gli sloveni, i serbi e i croati ad aderire alla lotta partigiana. I partigiani furono riconosciuti dal governo reale come l’Esercito regolare della Jugoslavia. Mihailović e molti cetnici rifiutarono. Su pressione di Churchill, finalmente in possesso di informazioni più esatte trasmessegli dal Deakin – col quale s’incontrò ad Alessandria d’Egitto – il 29 agosto, re Pietro II destituì Draža Mihailović da comandante in capo del JVUO e il 12 settembre mise Tito al suo posto.