Quando il Consiglio di Stato boccia il legislatore in italiano
Per me sono sempre motivo di tristezza gli scontri tra due istituzioni pubbliche. Forse perché ancora penso che lo Stato siamo noi e che, se si può litigare con se stessi, cionondimento resta un fatto deprimente. Mi è capitato di recente di leggere il parere del Consiglio di Stato su un progetto di decreto del Ministero della Sanità, e, incuriosito, mi sono mezzo a leggere le quasi nove facciate che compongono il parere del massimo organo della nostra giustizia amministrativa, quello al quale anche le massime autorità dello Esecutivo debbono ricorrere per evitare di produrre strumenti normativi destinati ad essere facilmente uccisi dalle sentenze che i suoi evcentuali errori provocassero. In materia di sanità pubblica, poi, la questione è anche più interessante, visto tutto quello che i nostri politici e amministratori sono stati e sono tuttora capaci di fare in un campo che è tanto delicato per chi ne è fruitore per le conseguenze che il suo malfunzionamento provocano nel campo della economia pubblica o in quello della salute del cittadino.
Al termine della lettura di quelle circa nove pagine mi sono sentito rattristato, umiliato, depresso.
Chi sta leggendo potrà chiedersi perché mai un parere su una proposta di decreto ministeriale possa provocare tanto sconquasso in un comune cittadino, anziché una più comprensibile sensazione di noia mortale. Sintetizzo la risposta in poche parole: perché il Consiglio di Stato ha bocciato il legislatore sanitario come un maestro può bocciare un alunno asino chiamato a svolgere un tema di italiano. Bocciato inesorabilmente, con vergogna. Il nostro legislatore sanitario (si dovrebbe scrivere con le iniziali maiuscole, ma non me la sento dopo la lettura) ha dimostrato in quel suo testo di non saper praticare la lingua italiana e, peggio, quando la usa denuncia lo imperdonabile difetto di non farsi capire. E poiché chi stila una proposta di legge normalmente è un pubblico funzionario che riveste ruoli di alta responsabilità, di dirigenza, e, quindi, ottimamente pagati, quei funzionari bocciati dovcrebbero dare le dimissioni e ritirarsi in un eremo a ripassare la lingua italiana, la grammatica, e im modo per farsi comprendere.
Provo a sintetizzare quelle nove pagine scritte con matita rossa e blu, e parto da una considerazione che fa il magistrato-estensore (ometto il nome, ma basterà consultare il parere del 23 ottobre 2014, Numero Affare 01989/2914).
Il provvedimento in esame era previsto da disposizioni normative (il Patto per la Salute 2014-2016) che il progetto di D.M. dovrebbe contribuire ad attuare, e a tale scopo “la Amministrazione sanitaria, con il coinvolgimento delle Regioni e delle Province autonome (Trento e Bolzano), delle Università e delle Società scientifiche ha elaborato il provvedimento in esame. Lo schema di provvedimento (si tratta di un regolamento) è stato sottoposto al parere del Consiglio di Stato. Una cosa “leggera”, appena 3 articoli e un allegato tecnico. Ecco come l”Organo di giustizia amministrativa, in sede consultiva, giudica il compitino svolto: “Sul piano generale va rilevato come lo intero provvedimento (compreso lo allegato) si caratterizzi per una scrittura assai lontana dai buoni canoni di un periodare piano, comprensibile a prima lettura ed elegante; e per un uso assai frequente di acronimi [ossia di sigle] e di espressioni in lingua straniera – che, secondo le regole della redazione dei testi legislativi, andrebbe vietato“.
Conclusione: il CdS “raccommanda una rilettura e riscrittura dell’ intero testo alla luce dei suddetti criteri...”. Questo in linea generale. Ma lo organo consultato si sofferma anche su singoli aspetti del provvedimento, che censura con i giudizi che seguono:
– la bozza di decreto premette che tra Stato e Regioni è stata raggiunta la previa intesa prevista per legge sulla materia. Ma il CdS obietta che “resta il dubbio sul fatto che l’ intesa sia stata raggiunta“, in quanto le Regioni hanno fatto obiezioni che non sembrano state accolte dallo Stato sul testo predisposto. Quindi: come si fa a dire “intesa raggiunta”, se, invece, vi è discordia sul testo???
– Viene suggerita la stesura di tutto un nuovo periodo, dal quale non si deducono alcuni adempimenti, o non si comprendono alcune affermazioni, o mancano altre cose che andrebbero dette;
– perplessità vengono sollevate in ordine al fatto che si “tende a trasformare in cogenti una serie di disposizioni che spesso non hanno un contenuto prescrittivo, ma si risolvono in mere motivazioni di scelte adottate, in manifestazioni di intenti, in richiami alla letteratura scientifica ecc.“. Insomma: come si trasforma in obbligo una chiacchierata tra amici (o quasi);
– di un comma si dice che “andrebbe riscritta tutta la ultima parte, inserendo anche una corretta punteggiatura (!);
– Il CdS invita il legislatore a decidersi se la parola “regioni” si scriva con la iniziale minuscola o maiuscola, essendo indifferentemente usata con le due scritte;
– un altro “pezzo” di legge induce il CdS a suggerire una riscritture della norma “per renderla comprensibile al lettore” [che altrimenti non capirebbe di cosa si parla)
– infine, la norma dovrebbe essere applicata senza ulteriori aggravi di spesa per lo Stato, ma, osserva il CdS , il meccanismo verbale adottato “potrebbe comportare un immediato onere a carico della finanza pubblica, prima di provocare i risparmi attesi“. Complimenti!
– vi è, poi, un mélange di errori: di punteggiatura, di parole, di participi passati scritti al maschile o al femminile, ma da intendersi al contrario è, infine, la dichiarazione che un certo comma “non si capisce in italiano“; mentre altri passi normativi utilizzano parole inglesi che il cittadino italiano non è tenuto a conoscere proprio perché la legge si indirizza a lui che ha una nazionalità non anglica.
In conclusione, il CdS si proclama, nei fatti, costretto a fare il docente di lingia italiana, prima ancora che il consulente giuridico del legislatore. Il quale, ed è la amara conclusione, prima di scrivere una legge, dovrebbe imparare la lingua italiana! Davvero rattristante.