CON IL REFERENDUM
PER LA REPUBBLICA
VILLA SAVOIA A FORMIA
DIVENNE PRIVATA
E’ trascorso da poco il 2 giugno, data che ricorda i 75 anni dall’istituzione della Repubblica Italiana a seguito del referendum istituzionale che sancì la caduta della monarchia e l’affermazione del sistema democratico repubblicano.
Una parte della odierna provincia di Latina è legata in qualche modo – un modo molto indiretto ed semi-privato, agli esiti del referendum. Nel 1935, 11 anni prima del referendum, la Famiglia regnante dei Savoia aveva creato a Formia una delle proprie residenze estive nelle quattro ville che oggi costituiscono la parte residenziale del Grand Hotel Miramare, sulla riviera di levante. Le ville erano state acquistate da Elena di Savoia. Con il disastro della Seconda guerra mondiale che Vittorio Emanuele III aveva accettato in piena subordinazione alle decisioni di Benito Mussolini, anche le ville erano venute a cadere sotto il regime dei beni della Famiglia. Quei beni rischiavano l’incameramento ll proprietà dello Stato repubblicano se il referendum avesse decretato la scomparsa della monarchia e l’abbandono dell’Italia da parte dei Savoia. La regina Elena del Montenegro, consorte di Vittorio Emanuele III, decise di vendere il compendio immobiliare all’ingegnere milanese Carlo Prati. In realtà il contratto aveva una clausola, forse non scritta, in cui Prati sì impegnava ad annullare la compravendita nel caso in cui il referendum avesse confermato la monarchia. (nella foto l’Albergo negli Anni ’50)
A proposito dell’acquisto della originaria proprietà da parte dei Savoia, il geometra Giuseppe Marciano di Formia mi mise cortesemente a disposizione molti anni fa copia del contratto di compra-vendita del “villino con circostante terreno” in località La Croce a San Pietro che il nonno, Antonio Forte, aveva dovuto cedere il 13 giugno 1936 (XIV) dietro cortese ma non eludibile richiesta della regina Elena Petrovich Niegoch, “fu S.M. Nicola, sposa di S.M.I. Vittorio Emanuele III di Savoia, Regina d’Italia, nata a Cettigne, domiciliata a Roma in via Salaria, Villa Savoia”. Il notaio romano Enrico Masi aveva cavallerescamente omesso di indicare la data di nascita della regina.
Si trattava di uno dei pezzi della proprietà che sarebbe stata accorpata per creare la residenza reale, ed era una bellissima proprietà: due piani e un ulteriore piano, una decina di vani e accessori, un’autorimessa, “una rampa di accesso alla riva del
sottostante mare dove esiste una cabina in cemento con prospiciente terrazzina per uso bagni marini”. Precisava il notaio che la rampa a mare era comune con la confinante proprietà del commendatore ingegnere Romeo Cametti, che a sua volta vendette alla regina la sua porzione e quella del signor Camillo Marotta. Questi ultimi beni derivavano dal fallimento dello stesso Marotta e dalla Società Anonima Cooperativa “Formiae Litus” in liquidazione, rappresentata nell’atto notarile da
Mario Genga di Felice. La Cooperativa intervenne per esonerare la regale acquirente dall’obbligo (che, al contrario, gravava sugli altri soci) di “non potere in alcun tempo elevare costruzioni ad altezza superiore ai due piani fuori terra e di non mai costruire a meno di quattro metri dalla linea di confine”. L’acquisto costò 200 mila lire d’epoca, equivalenti a 316 milioni di valore all’anno 2000. Il sacrificio di Antonio Forte, a parte il valore venale ricevuto, fu ripagato dalla regina con il dono di una spilla con brillantini con il monogramma “E”, corona e nodo sabaudo, a Flora Forte, figlia di Antonio Forte.
Tornando al Miramare, la votazione referendaria fu sfavorevole alla Famiglia regnante, che ebbe solo la consolazione di constatare che a Formia i voti in favore della Monarchia furono superiori a quelli per la Repubblica. La clausola di riserva, quindi, non scattò e
l’ingegnere Prati poté entrare nella legittima proprietà delle ville, che Maria José, moglie diu Umberto II, luogotenente del re, che aveva abdicato in favore del figlio, volle vedere un’ultima volta le ville mentre si recava a Napoli dove si imbarcò per l’esilio il Portogallo insieme al marito.
Fu facile all’ingegnere Prati adattare le quattro belle villette indipendenti ad albergo, che venne preso in gestione da Enzo Curti, un
albergatore che vantava una esperienza di famiglia nell’Hotellerie e che dette immediatamente un tocco di raffinatezza all’azienda, che volle chiamare Grand Hotel Miramare. Dal 1950 Curti volle come collaboratore Angelo Celletti, che, quando nel 1959 Curti lasciò l’impresa per andare a gestire a Roma l’Hotel Torino, assunse prima la gestione del complesso e poi ne acquistò la proprietà. Angelo Celletti – uno di quegli uomini per i quali si usa esemplarmente l’espressione self-made man – spese tutta la sua intelligenza organizzativa nella crescita dell’albergo, proseguendo il cammino che Curti aveva tracciato. Il Grand Hotel Miramare fu il primo, e per molti anni anche unico “ritrovo”, come si diceva, della costa. D’estate venivano a suonare ogni sera orchestrine di qualità ingaggiate da luglio alla fine di agosto, ed anzi l’inizio e la fine dell’estate di Formia coincidevano con l’inizio e la conclusione delle serate danzanti al Miramare.
Gli stabilimenti balneari di Vindicio avevano invece già ripreso la loro attività alla fine della guerra, appena ultimata la bonifica
delle mine (lungo i muri delle ville di Vindicio rimasero a lungo le minacciose scritte Achtung Minen!), e sia pure in condizioni di
precarietà. Distrutti dalla guerra gli stabilimenti realizzati a mare, sulle palafitte, i Frungillo, i Tibaldi (Risorgimento) e i Miele
(Bandiera) avevano ricominciato montando cabine di legno, puntualmente riverniciate ad ogni stagione, e sulla piccola spiaggia venivano allestite le “tende” per ripararsi dal sole: due pali di castagno in cima e tra i quali, a mo’ di amaca, si stendeva un telo variopinto, sostenuto ai bordi da una stecca di legno e legato ai quattro angoli da funi che venivano attorcigliate ai pali. Soltanto più tardi sarebbero comparsi gli ombrelloni. Iniziarono, invece, quasi subito ad apparire i primi costumi a “due pezzi” (che, in realtà erano un pezzo unico ma con un pudibondo lembo di pelle che appariva tra la parte alta e quella bassa del costume), e subito dopo apparve anche il divieto di indossare il “bikini” emanato dal siciliano ministro dell’Interno Mario Scelba, geloso custode della pudicizia di tutti.