Il terrificante incendio che in poche ore ha distrutto la cattedrale di Notre Dame de Paris, ha sconvolto il mondo sensibile. In Italia milioni di spettatori hanno seguito alla tv le immagini, mandate in onda su tutte le reti, delle fiamme che divoravano il legno di quercia delle strutture non edilizie e la svettante guglia. Non conosciamo, mentre scriviamo queste righe, quali danni irreparabili l’incendio abbia apportato anche ai tesori d’arte e della storia della Chiesa francese – ma possiamo dire di tutto il Cristianesimo . che vi erano custoiditi. Giustamente, il Presidente Macron ha voluto assumere l’impegno di ricostruire il tempio, che , quale premier dello Stato francese proprietario, era il “suo”, era sottoposto alla “sua” cura e vigilanza. Nel contempo è partito un appello al mondo per raccogliere i fondi necessari alla ricostruzione, e una risposta è stata subito data con la promessa di versare le centinaia di milioni di euro che saranno necessari a ripristinare una immagine iconica di quella che è stata la Grand Église.
Questa terribile vicenda rievoca le molte vicende che, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, portarono alla distruzione di centinaia di edifici che erano la rappresentazione vivente di secoli di storia della fede e dell’arte. Demolite senza alcun riguardo, e, forse, senza alcun problema di coscienza. Vale una intera città a rappresentarle tutte, quella splendida Dresda che è stata ricostruite com’essa fu.
Ma come dimenticare quanto accadde all’Abbazia benedettina di Montecassino, poche decine di chilometri a sud di Roma, in quel Lazio che fu intrappolato tra la Linea Gustav e lo sbarco di Anzio-Nettuno?
Mi sembra non ozioso ricordare oggi quell’evento, e alcuni suoi dettagli. Ma, soprattutto merita di ricordare come l’Abbazia fu ricostruita da un Paese, l’Italia, devastato dalla guerra fascista, ridotto alla fame, che affrontò il dopoguerra affidandosi alla democrazia, rifiutando il fascismo e scrivendo questo impegno nella Costituzione vigente. La ricostruzione fu assunta solo e soltanto dagli Italiani, i poverissimi Italiani di quegli anni, che versarono il loro obolo consentendo che in poco più di quattro anni, dalle polveri della distruzione, rinascesse la splendida Abbazia che occupa la collinetta di Montecassino.
Vogliamo ricordarlo con questo articolo.
La distruzione e la ricostruzione dell’Abbazia
Il 15 febbraio 1946 l’abate di Montecassino Ildefonso Rea lanciava via radio un appello al mondo. Diceva, tra l’altro: «Mai come in questa dura epoca della sua ultramillenaria storia, la Badia di Montecassino ha sentito l’assillo profondo e l’augurale verità del vecchio motto Succisa virescit; recisa ripullulat.…L’albero piantato su queste rupi dal Patriarca del monachesimo occidentale all’alba della formazione della nuova Europa, fu subito percosso, non atterrato, dai venti... Mai però, come in questa sua quarta totale distruzione, la rovina di Montecassino è stata così completa; mai come ora, su quel monte la vita è stata minacciata nelle sue più profonde radici, su quel monte dove da quasi paradisiaca fonte era sgorgata dal cuore di San Benedetto la regola immortale per scendere e diffondersi, linfa vivificatrice, sui solchi della nuova Europa».
Erano passati, da quel discorso, esattamente due anni da quando 244 aerei alleati avevano sganciato con letale precisione oltre 450 tonnellate di bombe sull’antichissima abbazia benedettina, scrivendo un episodio che è stato definito di “scorante stupidità”, di inutile brutalità, o, come scrisse il reporter Richard Collier, un atto di barbarie, «una delle tante perdite di reputazione di tutti i contendenti in questo quarto anno di guerra». Quella distruzione segnò uno dei momenti di massima caduta di una guerra che pure toccò profondissimi abissi di disumanamento.
Eppure, a ripercorrerne gli antefatti, la decisione fu laboriosa e apparentemente tormentata. Fu il generale neozelandese “Tiny” Freyberg, nuovo comandante del settore, a porre come condizione non discutibile la distruzione dell’Abbazia, che per lui era un nido di tedeschi; Mark W. Clark, comandante della V Armata US, espresse inutile contrarietà, così come il generale americano Keyes; Sir Harold Alexander, comandante della 8^ Armata britannica, non lo considerò un problema e non si oppose. Il generale americano Jacob Devers, comandante in seconda delle forze alleate, volle sorvolare l’Abbazia prima di dire sì o no. E nel sorvolo immaginò di vedere soldati e antenne radio. Il comandante in capo delle truppe alleate nel quadrante, Dwight ”Ike” Eisenhower concluse: «Se dobbiamo fare una scelta tra la distruzione di un famoso edificio e il sacrificio dei nostri uomini, allora la vita dei nostri uomini conta infinitamente di più, e l’edificio deve andare». Il permesso fu accordato.
Al momento del bombardamento nell’abbazia non c’erano tedeschi, e questo è storicamente un fatto: c’era l’ultraottantenne abate Gregorio Diamare, c’erano 12 monaci, e c’erano alcune centinaia di rifugiati civili, ospitati nelle profonde grotte del monastero, dove avevano chiesto rifugio perché fuori, nelle ”pagliare”, nei rifugi in collina non si poteva resistere più. Sulle balze aspre di Monte Cassino, sulla collina di Rocca Ianula, sul vicino monte Camino si erano abbattute in meno di due mesi centinaia di migliaia di granate, oltre duecentomila solo negli ultimi due giorni. Qualcosa come quattromila tonnellate di esplosivo. Monte Cassino era diventata una sfida: forse si sarebbe potuta superare con una manovra avvolgente, l’aveva suggerito il generale francese Juin. Non fu fatto. E i tedeschi ottennero uno straordinario successo di immagine: loro si erano tenuti fuori dai sacri recinti, anzi, proprio loro avevano salvato i tesori d’arte del monastero e i millenari libri e incunaboli del grande archivio benedettino. Il 12 gennaio, difatti, sotto l’obiettivo interessato dei fotografi militari, la divisione Hermann Goering aveva caricato su 150 camion militari tutti i tesori archivistici e artistici asportabili conservati nell’Abbazia, anche quelli provenienti dalla Galleria Nazionale di Napoli, e li avevano trasferiti in Vaticano. Tutti tranne due camion, che si ”persero”, ma che, in realtà presero la direzione della Germania dove dipinti di Brueghel, di Tiziano, di Raffaello finirono nelle collezioni private di Goering come sontuoso omaggio di compleanno da parte della divisione che si fregiava del suo nome.
Poco più di un mese dopo, tra le 9.28 e le 11.33 del 15 febbraio, in otto successive ondate, gli aerei alleati scaricarono sull’abbazia 453 tonnellate di bombe di cui 66 incendiarie. Al termine, dell’abbazia restava, letteralmente, un cumulo biancastro di macerie che grondavano polvere e di pietre sbriciolate.
Oltre un centinaio dei rifugiati vi rimasero sepolti, poi dallo sfacelo emerse una bianca processione di fantasmi sopravvissuti, istupiditi dal frastuono delle bombe, terrorizzati dalla morte che avevano visto così vicina. L’abate Diamare fu tra i superstiti: lasciò la distrutta abbazia il 17 febbraio, dopo che erano partiti tutti gli altri. Uscì dal portone che si chiamava Pax stringendo nella vecchia, debole mano una croce, in testa ai suoi monaci. Tesori artistici di secoli furono annientati, ma la tomba di S. Benedetto fu salva.
Il giorno che precedette l’incursione altri aerei alleati avevano lanciato migliaia di manifestini che invitavano a lasciare il monastero. Fu l’atto col quale gli alleati pensavano di aver messo la coscienza al riparo da recriminazioni. Come ultimo atto alleato, prima che fosse dato il via ai B-17, ai Mitchell B-25 e ai Marauders B-26, fu il puntamento sull’abbazia, ai lati del colle, di quattro macchine da presa per documentare l’avvenimento, secondo la buona tradizione dei colossal, stavolta dal vivo.
Il risultato tattico del bombardamento fu desolante: due giorni dopo le fanterie alleate erano ancora bloccate; e il giudizio complessivo fu peggiore: Kesselring lo definì “impresa inutile, anzi dannosa in vista dei futuri combattimenti”, perché “l’Abbazia non era compresa nella linea di combattimento, e anzi alcuni reparti di gendarmeria ne impedivano l’accesso”; Christopher Buckley parlò di “fallimento”: i tedeschi “erano vivi, sani e combattevano con le loro Spandau e le granate con la solita micidiale precisione”. E il generale Harold Alexander: “Questa battaglia fu un successo dei tedeschi”.
E, difatti, appena gli aerei ebbero lasciato il cielo di Montecassino, i soldati della germanica I Divisione Paracadutisti, sotto il comando del Generalleutnant Richard Heidrich, uscirono indenni dai loro rifugi sui monti, prendendo posto tra le macerie, che trasformarono in un bunker nel quale resistettero per altri tre mesi.
La pubblicistica sulla distruzione di Monte Cassino è vastissima. Tra i documenti più toccanti vanno ricordate le pagine semplici e intense lasciate da padre Tommaso Leccisotti, grande storico e grande archivista casinensis. Tra il 1944 e il 1945, quando l’intensità delle emozioni era ancora vita vissuta scrisse il libro Montecassino dal quale fu tratto ampio spunto per la realizzazione del film omonimo, presentato alla Mostra internazionale cinematografica di Venezia del 1946.
Nel suo messaggio radiofonico del febbraio 1946 l’abate Rea aveva concluso: “Risorta dalle rovine, l’abbazia sarà […] il monumento espiatorio della devastatrice furia guerresca, il tempio della pace…, l’ara pacis novae”. La rinascita di Montecassino fu davvero miracolosa, per i tempi brevissimi impiegati, e per la assoluta fedeltà all’originale che gli storici dell’arte, i restauratori, gli ingegneri e i 250 operai conseguirono. Ed anche perché fu merito esclusivo degli Italiani.
Il Vaticano, difatti, si tolse anche un sassolino dalla scarpa: quando l’incaricato di affari Usa presso la Santa Sede, Harold Tittman, offrì fondi americani per ricostruire l’edificio. Il Segretario di Stato vaticano, Cardinale Maglione, replicò amaramente: “Anche se lo ricostruiste in oro e diamanti, non sarebbe il Monastero”.
L’appello di monsignor Rea fu raccolto dagli Italiani, dai poverissimi, straccioni Italiani resi tali dalla Guerra fascista, che si tolsero il pane dalla bocca per versare le lire necessarie a integrare i fondi che il Vaticano mise a disposizione. Fu la rivincita dell’Italia democratica, e fu una testimonianza di generosità che, mentre oggi si studia come restaurare Notre Dame, i Francesi dovrebbero imitare