DANIELE NARDI, UN RICORDO
Ho conosciuto Daniele Nardi in modo del tutto casuale. Lo scorso anno mi trovavo a Priverno con mia figlia, che lo aveva intervistato molte volte e che ne ha seguito come giornalista tutte le ultime spedizioni, fino a quella fatale dello scorso febbraio 2019. Lui usciva da una casa, nella piccola strada c’era poca gente ed è stato facile che Daniele e mia figlia si riconoscessero. Si sono salutati, hanno scambiato un rapido abbraccio e un sorriso, poi mia figlia me lo ha presentato. Mi è parso un uomo sereno e determinato, mentre mia figlia gli chiedeva quali sarebbero state le sue prossime attività. “Innanzitutto voglio ritornare sul Nanga Parbat – ha detto – voglio vincere questa sfida. Non è possibile che dopo aver scalato Everest e K2 non possa trovare il modo di affrontarlo”. Qui ci siamo salutati.
Questo breve scambio di battute mi permette di introdurre questo brevissimo ricordo di un uomo tanto deciso quanto sfortunato. Un uomo che la provincia di Latina, la sua città Sezze, ma anche tutto l’alpinismo italiano, dovranno ricordare. Sono anche io appassionato di montagna, ma non ho mai provato simpatia per l’alpinismo. Rispetto, sì. La montagna, dico la montagna d’estate – per me che ho vissuto tutta la mia giovinezza a Formia, a due passi da quel mare docile come una pecora – dà un senso di quiete e di sorpresa continua. Per venti anni ho frequentato le Dolomiti, dalla Pusteria alla Venosta, dalla Badìa al Cordevole, alla val di Fassa e di Fiemme dove è nato qualche mio zio proveniente dal mio ramo paterno, che era trentino. E ora che non ho più modo di andarvi, mi resta sempre un nodo di nostalgia quando viene il tempo in cui mi recavo con la mia famiglia in mezzo a quelle splendide manifestazione della forza imponente della Natura e della Bellezza. Rimpiango soprattutto il silenzio delle altitudini, rotto appena dagli echi provocati dal ruzzolare di una pietra, dal grido di qualche uccello, dal fischio di una marmotta o dai nostri passi lungo i sentieri che percorrevamo. Daniele Nardi, perciò, aveva tutta la mia ammirazione perché era un vero uomo di montagna, un appassionato che però si lasciava dominare più dall’entusiasmo e dalla fiducia in se stesso che dal timore delle grandi vette degli Ottomila. Sono posti dove si fatica a respirare, dove il vento tagliala faccia e brucia il viso, dove il freddo è un nemico mortale, e il pericolo è in ogni luogo. Più che ammirazione, mi suscitava invidia pensare a Daniele Nardi che per vincere in invernale il Nanga Parbat scalava muri di ghiaccio alti anche mille metri, senza l’aiuto e la sicurezza delle corde, affidato solo al proprio coraggio, alla propria forza, alle due piccozze che lo ancoravano alla parete che precipitava a strapiombo, scavando prima le buche in cui avrebbe infilato gli scarponi o i ramponi. Ho seguito la sua vicenda di uomo e di sportivo con l’apprensione con cui tutti l’abbiamo seguita in quei terribili 11 o 12 giorni dal 24 febbraio, quando si interruppero le comunicazioni col campo base. E, confesso, che quel silenzio mi aveva detto subito che l’irreparabile era accaduto. Quando abbiamo tutti visto schiacciate sul ghiaccio dello sperone Mummery la sagoma di Nardi e quella di Tom Ballard, suo sfortunato amico e compagno di avventura, ho avuto una stretta al cuore. E ho pensato: ma che ci facevano lassù, in quella strettoia di ghiaccio disegnata da rocce appuntite e spietate, pressoché senza null’altro che la giacca a vento arancione e i pantaloni imbottiti, ma apparentemente senza alcuno strumento da usare? E a pochi passi dalla loro minuscola tenda? E ho ripensato ai racconti di Walter Bonatti del 1961 sull’obelisco di pietra, di gelo e di tempeste estive del Freney sul Monte Bianco; e ho ripensato alle descrizioni scarne e scultore se di Erri De Luca – un altro “marittimo” votato all’alpinismo – vi ho ripensato con il dolore e la gioia che danno queste avventure, sia pure vissute da altri. Ciao Daniele, ciao Tom, è questo l’unico modo con cui so e posso ricordarvi, ringraziandovi per il vostro spregiudicato e folle coraggio, che dimostra tutta la forza di volontà e tutta l’audacia di cui l’Uomo sa avvalersi per conquistare un obiettivo caro a lui ma appartenente a tutta l’Umanità.