CAMPANE A DISTESA PER L’ADDIO A DON RENATO DI VEROLI
Don Renato Di Veroli ha lasciato questo passaggio terreno la notte del 22 settembre 2015, nella sua abitazione di Latina. Tra meno di un mese avrebbe festeggiato i 99 anni. Le campane della cattedrale dove si sono svolte le esequie hanno suonato a distesa, come ringraziamento per una vita così estesa che il Padre ha assegnato a don Renato e per le buone cose che ha saputo dispensare nella parrocchia, nella città, nella diocesi. Il funerale è stato celebrato dal Vescovo diocesano monsignor Mariano Crociata, assistito da numerosi sacerdoti diocesani, alcuni dei quali erano stati vice parroci con don Renato. Come ricordare questa grande figura di sacerdote e di uomo è cosa non facile. Io lo faccio pubblicando con brevi tagli il saluto che ebbi la ventura di porgergli domenica 29 ottobre 2005, quando fu festeggiato il compimento del suo 90° anno. Non è un’ autocitazione, ma solo il ricordo a un documento scritto quando don Renato era ancora in mezzo a noi.
Ci sono due diversi sentimenti con i quali mi debbo confrontare in questo momento: da un lato il grande piacere di poter fare, a nome di tutti, gli auguri a don Renato per questi splendidi e invidiati 90 anni; dall’altro, la difficoltà di parlare di quello che ormai è divenuto, senza esagerazioni, un monumento. E il monumento-don Renato, grazie a Dio, è in condizioni di ribattere mie non desiderate sciocchezze con un rigoglio fisico, con una lucidità intellettuale e con una fede contagiosa, che potrebbero mettere a in difficoltà l’improvvisato relatore che è il sottoscritto. Per affrontare questo compito ho ragionato su quali fonti usare. Ho fatto appello alle testimonianze scritte che costellano i vari anniversari del cammino di don Renato, a partire da quel 29 giugno 1941 in cui fu ordinato sacerdote per sempre, l’abbas sempre abbas. Ma ho anche fatto ricorso a qualche ricordo personale e ad alcune considerazioni che riguardano il mio modo di relazionarmi con don Renato, ossia quello che di lui ho capito.
Le fonti personali sono di due generi:
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la prima riguarda il momento in cui ebbi il primo contatto con don Renato. Risale agli anni Settanta, forse il 1972, quando lo avvicinai per raccogliere anche la sua testimonianza per il mio primo libro sulla guerra in terra pontina. Quanto mi disse fu prezioso, perché mi fece il racconto della distruzione di due chiese di Sezze, avvenuta il 22 maggio 1944, annientate da un inutile bombardamento che costò la vita a molti cittadini. Da quel momento è nato un rapporto che dura tuttora. Se mi è permesso, vorrei ricordare il risultato di quel primo incontro nel modo in cui lo riportai nel mio libro.
“Quel mattino don Renato “stava pronunciando la sua omelia quando, verso le 8,30 cominciò ad avvertirsi un ronzio, ormai troppo noto perché potesse non essere esattamente riconosciuto. Dal fondo della chiesa il padre, Giuseppe, gli fece bruschi cenni di affrettare il discorso e di fuggire. Il sacerdote aveva da poco terminato, in tutta rapidità, l’Ufficio che le bombe erano già piovute su Sezze. Appena il fracasso delle esplosioni si placò, si recò di corsa nella piazzetta che si apre sulla non lontana chiesa di S. Andrea. Dell’edificio sacro non restavano che macerie. A terra i corpi di 94 vittime e di 116 feriti. Don Renato si dette da fare per dare assistenza, aiutato da don Francesco Pontecorvi, il parroco di S. Andrea, scampato alla morte perché al momento del bombardamento era venuto a trovarsi nell’unica stanza di sacrestia risparmiata dal crollo. La strage di S. Andrea era stata in qualche modo agevolata dalla numerosa folla che, come d’abitudine, si era raccolta nella piccola piazza per il mercatino della verdura. Don Renato corse di nuovo a S. Rocco, dove nella sala capitolare erano nascosti, per sfuggire alle requisizioni, cinque civili. Consigliò loro di trovare rifugio altrove. Due ore dopo gli aerei tornarono di nuovo su Sezze. La pioggia di bombe cadde stavolta presso gli Zoccolanti, presso l’Ospedale e sulla stessa chiesa di S. Rocco. Le sue mura si aprirono precipitando a terra in un polverone. La parete dal lato del campanile si addossò intera al seminario vescovile senza crollare. Don Renato, aiutato da Gianni Di Veroli, estrasse dalle macerie il Santissimo. Ritrovarono anche la statua lignea di S. Rocco…. Fu recuperata in parte anche la biancheria che alcune famiglie avevano murato sotto il pavimento dell’edificio, e l’archivio del notaio Lombardini”.
La seconda fonte è di altro genere: non appartengo alla parrocchia di Santa Maria Goretti, anzi, pur essendo molto affezionato alla mia, che è quella dell’Immacolata – che frequento da quando si officiava nella sede provvisoria che oggi è il cinema Moderno, sotto la guida indimenticata prima di fra’ Epifanio Scarnicchia e poi di fra’ Nicola Cerasa – pur essendo, come dicevo, affezionato alla mia parrocchia, sono un nomade parrocchiale. Mi piace cercare Dio in tutte le case che l’uomo Gli ha elevato a Latina. Malgrado questa mia extraterritorialità parrocchiale, don Renato mi è stato vicino sacramentalmente nel tempo della mia vita di padre di tre figli e di nonno di sei nipoti, in una serie di circostanze che hanno praticamente riguardato la crescita della mia famiglia e anche qualche prova subìta. E non solo: ho fatto ricorso a lui anche nella mia attività professionale, ricordando che due anni fa don Renato benedisse l’inaugurazione dell’Auditorium Mario Costa che il mio ente realizzò a Sezze, anzi, nella sua Sezze.
La biografia di don Renato è ormai diventata un vero e proprio corpus, grazie alla longa levitas annorum che il Signore gli ha concesso.
Un rapidissimo excursus affidato alle date:
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29 giugno 1941: dopo il corso nel pontificio collegio Leoniano di Anagni, don Renato viene ordinato sacerdote nella chiesa collegiata dei Santi Sebastiano e Rocco nella sua Sezze. Monsignor Pio Leonardo Navarra sarà il primo di una serie di nove vescovi e cardinali (Navarra, Gasbarri, Micara, Pintonello, Pizzoni, Carli, Compagnoni, Pecile e il felicemente “regnante” monsignor Petrocchi) che attraverseranno la sua vita sacerdotale. Per la verità, nel suo libro “Sacerdote per sempre” don Renato include anche monsignor Salvatore Baccarini che era vescovo diocesano quando lui entrò in seminario [mentre non include monsignor Pizzoni, perché apparteneva alla ancora sussistente diocesi di Terracina-Sezze]. Aggiornando al momento della sua salita al Padre, i vescovi diventammo dieci, con monsignore Mariano Crociata, oggi titolare della diocesi. Né va dimenticato che lungo la sua vita, insieme ai vescovi, ha avuto un cospicuo accompagnamento di Papi: Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II ed ora Benedetto XVI (oltre all’attuale Papa Francesco). E come dimenticare i suoi 11 (o forse 12?) vicari parrocchiali, tra i quali è difficile dimenticare don Mario Sbarigia, attuale vicario generale, don Giancarlo Masci, parroco a Cisterna, e poi don Giuseppe De Nardis, don Antonio Capodilupo, don Angelo Buonaiuto, don Daniele Della Penna, don Luigi Libertini, lo storico don Massimiliano Di Pastina e, naturalmente, monsignor Francesco Lambiasi vescovo di Rimini. Insomma, si può dire che non ha mai avuto il tempo di stare solo, anche perché, interpretando con molta coerenza la sua vocazione, lui la compagnia è andata sempre a cercarsela, tra i suoi fedeli, anche là dove sembrava che di fedeli dovessero essercene pochi.
La prima vocazione del giovane don Renato fu quella di farsi missionario; e in verità, come lui stesso scrive, in missione ci andò, anche se non in terra straniera, quando accettò di trasferirsi, nell’immediato dopoguerra, in quel Borgo Faiti nel quale circa duemila anni prima era passato San Paolo. All’epoca era una piccolissima comunità sociale, priva di chiesa e di sacerdoti, ma desiderosa di avere entrambi. E don Renato vi costruì una solida struttura comunitaria, spirituale e materiale. A Borgo Faiti don Renato giunse il 7 ottobre 1945, la domenica della Vergine del Rosario. Il 13 agosto di cinque anni dopo divenne il primo parroco della nuova parrocchia che vi fu eretta e che venne riconosciuta il 21 maggio 1951, e che venne dedicata proprio alla Beata Vergine del Rosario.
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1° gennaio 1956: don Renato viene nominato parroco di S. Maria Goretti. La parrocchia era stata eretta il 1° novembre 1953, riconosciuta il 26 settembre 1954, amministrata prima da don Giuseppe Cirenei e quindi, per breve periodo, da padre Carlo da Roma, cui seguì don Renato. La presa di possesso avvenne il 6 gennaio 1956. All’epoca era una parrocchia quasi periferica, posta sul bordo del rione delle Case Popolari, al di là del quale si apriva la campagna e che era isolato, più che raccordato, dal centro storico dalla circonvallazione, allora ampia perché quasi completamente priva dei palazzi che oggi la accompagnano, frequentata solo dai pullman dell’Atal, da qualche macchina e da qualche carretto. Era la zona che durante e subito dopo la guerra veniva chiamata il Ricovero, per quell’approssimativo e fragile allestimento bellico che avrebbe dovuto proteggere, con molto ottimismo, dalle bombe gli abitanti della zona.
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Il 15 dicembre 1961 don Renato viene nominato cameriere segreto soprannumerario del romano Pontefice, e indossa la fascia violacea da monsignore.
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Il 29 giugno 1991 celebra il cinquantesimo di sacerdozio. Quel 1991 don Renato viene nominato vicario generale diocesano. E sempre in quel 1991, un anno magico, c’è la visita di Papa Giovanni Paolo II a Latina.
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Il congedo da parroco, infine, è del 2001. E’ stato, forse, il momento più duro – e chi non avrebbe sofferto a lasciare un lavoro lungo quasi mezzo secolo? – venuto, per di più, a cadere in un momento in cui chi ebbe la possibilità di frequentare don Renato ne colse anche un senso di profonda amarezza, forse di sconforto, perché all’inesorabile allontanamento giuridico dalla parrocchia imposto dall’età, si univa una sofferenza fisica che sembrava isolarlo e quasi sottolineare un crepuscolo che don Renato non avvertiva e dal quale rifuggiva, ma contro il quale pareva non potesse lottare. Ma da quei momenti si riprese quando, insieme alle preghiere, gli venne in soccorso la tecnica che, avendolo dotato di un nuovo splendido udito, gli ha restituito non so più quanti anni di nuova giovinezza, dimostrando nei fatti la perfetta compatibilità e l’avvenuta conciliazione tra fede e scienza.
Con grande semplicità e sincerità don Renato ha scritto: “Tutta la mia vita di prete è stata contrassegnata da stagioni di apostolato più o meno intenso, da momenti di stanchezza, senza sottrarmi ai confronti con la realtà della vita. Anche nei momenti di grande lavoro, ho trovato le parole giuste per porla sotto la Croce del Cristo come segno di condivisione che nella fede affermiamo con tanta speranza”. Sono le parole che hanno chiuso il suo apostolato diretto, aprendo quello per così dire indiretto, altrettanto fecondo e operoso di questi giorni. Cosa dire di questa lunga, laboriosa e benefica vita di don Renato? Viene da considerare che è difficile attraversare quasi tutto un secolo, scavalcarlo, affacciarsi in ottima forma fisica e in perfetta forma spirituale nel millennio nuovo, con sempre fresche e rinnovate motivazioni, e cominciare gagliardamente ad affrontarlo senza che lo sguardo si volga a guardare alle molte cose trascorse, agli eventi che si sono susseguiti, di guerra e di pace, di angustie e di serenità. Sappiamo che don Renato ha sempre voluto marcare questa lunghissima stagione con testimonianze scritte, intese come soste di riflessione per trarre un bilancio, secondo una cadenza che ha visto alternarsi i grandi anniversari del suo sacerdozio a quelli del suo tempo anagrafico. Gli dobbiamo essere grati anche di questo, perché ha, in quelle stesse circostanze, costretto anche ciascuno di noi a fermarsi a considerare il valore del tempo e dei comportamenti. Abbiamo, così, nei diversi gradi di maturità vissuti insieme a lui, avuto la fortuna di riflettere sulla grazia della fede che ci è stata donata, di riconoscerla, e di sentirci privilegiati di questa consapevolezza, che è stata ed è battaglia quotidiana, in un mondo – come ha detto il laico Alexandr Solzhenitsin – “tanto riuscito nella tecnica, quanto psicologicamente precipitoso”; un mondo che “ha creato un’illusione diffusa, ma infondata, di sazietà”, tale da indurci a credere di avere ormai consumato ogni esperienza normale e di poterci imbarcare in esperienze insondabili, quasi che esso abbia “perduto la capacità di nutrirci ancora”.
Come conseguenza, lo stesso Solzhenitsin derivava una ulteriore “causa del nostro impoverimento spirituale dall’incremento sbalorditivo e rapido e dal dilagare del benessere materiale prodotti dallo sviluppo dei mezzi tecnici. Essi hanno repentinamente travolto l’autodisciplina del carattere dell’uomo, che consiste nell’essere e restare saldo nell’anima, al di sopra del flusso del benessere… A quelli che non vi sono riusciti, il comfort generale ha ottuso l’anima”.
Verrebbe da concludere, con monsignor Ravasi: quasi che l’intreccio tra tempo ed eterno, tra spazio ed infinitudine, che è sintetizzato nella Incarnazione, non fosse sufficiente a riempire la vita di un uomo. Se così stanno le cose, il problema è di capire di quali scossoni ci si possa avvalere per superare l’ottundimento dell’anima, ed insinuare in essa l’inquietudine della ricerca. Perché inquietudine? Diceva l’ex agnostico, poi cattolico Julien Green: finché il cuore di un uomo è inquieto, possiamo stare tranquilli.
Provo a citarne un esempio: un altro e noto laico ha scritto su un giornale del 18 gennaio 1977: “Capiterà, come a me, di avere la coscienza di un suono che esiste sopra le cose, un suono enorme, straordinario, che si innerva nella Natura e le dà vita, energia. Se si chiama Dio, quel suono, è qualcosa comunque che non possiamo avvicinare nemmeno con il pensiero tanto è largo, immenso, infinito”. Qualcuno, forse, si meraviglierà a sentire che queste parole sono state scritte da Dario Fo. Parole che sembrano echeggiare, ex adversis, un brevissimo passo del libro de I Re, che dice che il Signore si nasconde “in una voce di sottile silenzio” (Re, 19, 11-12).
Sono inquietudini che puntano, dunque, in alto, molto in alto. Ma salire costa fatica, e il mondo in cui viviamo non ci aiuta. Giovanni Paolo II ebbe a denunciare che dopo i totalitarismi nazi-fascista e comunista, è in marcia da dominatore il terzo Totalitarismo, il potere assoluto del denaro, di fronte al quale tanti e tanti si inchinano ammirati, dimenticando molti doveri, trascurando l’essenza etica dell’agire umano, e spesso anche che il ministero pubblico di cui molti sono investiti significa servizio: naturalmente servizio per gli altri, non per se stessi.
Ho voluto fare queste citazioni non per esibizionismo letterario, ma solo per ricordare quanti passaggi debba compiere una persona che voglia andare al di là di quel mero flusso di benessere, di quell’ottundimento dell’anima, di quell’inchinarsi al comfort. Passaggi che riguardano il laico e il sacerdote, e nei quali lo stesso don Renato si sarà imbattuto, nella sua lunga esperienza di uomo e di sacerdote, di individuo e di pastore, di persona sola e di guida di una comunità. Dicevo prima che è difficile attraversare quasi tutto un secolo, scavalcarlo, e affrontare quello nuovo senza che lo sguardo si volga a guardare alle molte cose trascorse, agli eventi che si sono susseguiti; alla grande vita vissuta in una piccola comunità con la quale si è cresciuti insieme, portando negli occhi e nel cuore soddisfazioni, incertezze, esitazioni e magari dolori; ma anche appuntamenti destinati a marcare l’intero percorso di una vita, come la visita che l’urna della Santa titolare della chiesa fece nel 1974; e come l’emozione dell’incontro con papa Giovanni Paolo II nell’ottobre del 1991: quel giorno, in occasione del suo centesimo viaggio pastorale, il Pontefice accordò alla comunità guidata da don Renato lo straordinario privilegio di una visita, di una sosta destinata a restare nella storia della chiesa parrocchiale alla pari di quella della chiesa diocesana.
Da cronista ebbi l’occasione di vivere la giornata del Pontefice a Latina, iniziata al mattino presso la casa del martirio di Santa Maria Goretti e conclusa a sera nel grande spettacolo di fede partecipata nello stadio cittadino, dove venne celebrata una Eucaristia destinata a restare impressa in chi, come il sottoscritto, ebbe la fortuna di parteciparvi. Ricordo, in particolare, il volto di don Renato vicino al Papa polacco, quando l’emozione di quella prossimità avrebbe potuto sopraffarlo: e invece ebbe il sopravvento il solito sorriso sereno, che era la somma della grande soddisfazione per quel che stava avvenendo, della partecipazione del popolo che si affollava attorno al monumento a S. Maria Goretti, delle mani di Papa Woityla che stringevano le sue.
Credo che quelli siano stati momenti indimenticabili, alla pari di tutti i momenti nei quali don Renato ha vissuto comunitariamente, e di quelli nei quali ha vissuto nel personale raccoglimento, nell’espletamento del suo servizio di sacerdote, di pastore, e di amministratore di un ente ecclesiastico, all’interno non della sola comunità parrocchiale, ma dell’intera comunità ecclesiale pontina, avendo Egli vissuto anche la gravosa ed esaltante esperienza di vicario generale diocesano. Ma che significato ha avuto questo vivere nella comunità? Che senso hanno avuto la sua solitudine e i suoi momenti di vita corale, la sua gioiosa inquietudine e i problemi materiali che quotidianamente ha dovuto affrontare, il tempo della preghiera solitaria e quello della celebrazione assembleare, i momenti in cui si era costretti ad abbandonare la diplomazia e quelli in cui si doveva esercitare la pazienza?
Ha scritto Dietrich Bonhoffer, sia pure con riferimento ad una diversa situazione, ma con parole che calzano, a mio avviso, anche in questa circostanza: “La comunità cristiana non è un sanatorio per lo spirito. Chi non sa stare da solo si guardi dal cercare la comunione. E chi non sa trovarsi in comunione si guardi dallo stare solo. Esclusivamente nella comunione riusciamo ad essere soli, ed esclusivamente chi è solo, è in grado di vivere nella comunione”, secondo un equilibrio che, tenendo conto della limitatezza dell’uomo, è un raggiungimento di perfezione nel collegamento costante con Dio e con il prossimo.
Credo di poter concludere questo momento di gioia e di partecipazione alla festa per i 90 anni di don Renato, benedetti per tutto quello che egli ha saputo dare alla comunità e a ciascuno di noi, proprio facendo riferimento a questa sintesi di vita sacerdotale in comune e di vita sacerdotale vissuta nella preghiera personale; e, al di là delle inevitabili angustie che possono aver segnato qualche momento, ho la convinzione che don Renato abbia trovato sempre nel perfetto equilibrio di quei due momenti il senso del suo servizio.
Auguri don Renato!
Oggi, dopo che don Renato è tornato alla casa del Padre, mi sento di ripetere quelle parole come se don Renato fosse ancora in mezzo a noi.