LA RESISTENZA PONTINA NEL CORSO DELLA II GUERRA MONDIALE
Il tema della Resistenza antitedesca in terra pontina è sempre stato guardato con diffidenza da chi ha del tema bellico conoscenze limitate ai fatti più noti. Nelle due edizioni de I giorni della guerra in provincia di Littoria (anni 1974 e 1985) per la prima volta mi posi il problema se in questa zona gli episodi di resistenza passiva o di iniziative di contrasto agli occupanti, isolate ma reali, potessero configurarsi come episodi di “resistenza” . E in modo interrogativo affrontai il tema, che qualcuno, a mo’ di risposta alle mie conclusioni, liquidò con due battute, parlando di mie illusioni (Linda La Penna, La Resistenza nel Lazio) senza neppure verificare se le cose portate come possibile dimostrazione fossero interpretabili quanto meno come un sintomo; qualcun altro, per contro (e cito l’avvocato Alessandro Onorati, oggi purtroppo scomparso, che mi mandò una vivace lettera da me riportata nel mio libro Dalla Gustav all’Agro Pontino), ha reagito criticamente al fatto che si mettesse in dubbio l’esistenza di un movimento partigiano locale. Forse a distanza di 60 anni e con una storiografia che si fa faticosamente strada tra le interpretazioni interessate, il discorso ha un significato diverso. Nel senso di guardare a quegli episodi come ad accadimenti oggettivi e come momento di una presa di coscienza nei confronti di una situazione politico-militare come quella fascista ormai decaduta.
Pietro Secchia ha lasciato nel suo libro Storia della resistenza, Editori Riuniti, 1965, la descrizione di una serie di atti militari compiuti da civili resistenti, che non riguardano soltanto i Colli Albani, dove tale movimento è sostanzialmente riconosciuto, ma anche l’area pontina. Che durante gli eventi bellici in terra pontina non vi sia stato quel tipo di Resistenza che ha fatto la storia civile di altre regioni, specialmente dalla Toscana al Nord Italia, è un fatto. Ma è pure un fatto che la Resistenza, come movimento organizzato per contrastare con le armi gli occupanti tedeschi e i fascisti di Salò, non è nata adulta: essa si è formata, sviluppata, ha preso coscienza, si è strutturata come movimento militare e si è, infine, imposta come fatto essenziale e qualificante della rinascita democratica attraverso gli ancora lunghi tempi della guerra, formandosi sulla propria, ma anche sulla altrui esperienza. Nell’esperienza va collocata sicuramente quella fatta negli otto mesi di battaglia in provincia di Littoria.
Può certamente parlarsi di diversità qualitativa, negli aspetti e nelle forme, distinguendo anche la resistenza fatta con una struttura armata e militare, e quella che si esprimeva in modi non militari. Ma gli ideali furono gli stessi. Quella fu Resistenza cosciente, rispetto a “queste” forme per lo più istintive e spontanee; quella fu organizzazione militare, rispetto a “queste” iniziative sporadiche, occasionali e individuali. Ma, intanto, non va dimenticato, come si diceva, che tutta l’area pontino-aurunca fu intasata di militari, e ciò già era un fattore oggettivamente limitativo, al quale si aggiungevano la ristrettezza e la qualità degli spazi geografici, che non consentivano le adeguate possibilità di dispiegamento e di fuga che ogni azione clandestina che non fosse dichiarata¬mente suicida, pretendeva.
C’era anche un ulteriore elemento che qui frenava una iniziativa resistenziale attiva su ampia scala: la presenza diffusa e raccolta in brevi aree della popolazione civile, che significava possibilità dì immediata e sicura rappresaglia secondo metodi noti e brutali (e numerosi sono stati gli eccidi compiuti, anche se non delle proporzioni registrate in Emilia o nel nord Italia). E, infine, mancava in questa Provincia una soli¬da tradizione di lotta antifascista. Nella provincia di Littoria, composta com’era da città nate dal regime e popolate in nome del regime, a Nord: e da città del Sud a forte tradizione conservatrice, restava solo il vento di fronda che interessava i monti Lepini. Mancavano, insomma, le radici storiche di una resistenza pre-organizzata.
Perciò, in provincia di Littoria la resistenza fu soprattutto un netto stacco psicologico e politico, che separò subito occupanti e civili, classificandoli in categorie contrapposte. Le prove, e non solo í sintomi, si colgono da vari fatti: l’assistenza agli informatori e ai soldati alleati, la fuga dal lavoro obbligatorio, sottrarre materiale alla requisizione, sfidare gli ordini di sfollamento, affrontare campi di mine, attraversare le linee per terra o per mare (come le frequenti fughe di cianciòle da pesca da Gaeta verso il territorio già in mano alleata), sfuggire alla coscrizione, tentare di attivare gruppi più o meno organizzati. Potrà obiettarsi che questa è, soprattutto, autodifesa, istinto di conservazione: ma non ci si difende da amici, né ci si “conserva” rischiando la pelle, specie quando la percentuale del rischio è appena superiore a quella della impunità. Basterebbe, del resto, scorrere i terrificanti elenchi dei civili ammazzati per aver tentato di oltrepassare una linea di demarcazione allo scopo di cercare cibo, delle torture inflitte, delle brutalità di vario genere patite: morti che erano espressione di barbarie, ma anche conseguenza di un atto di avversione e di sfida. Basterà anco¬ra ricordare il sabotaggio delle macchine agricole e delle diserba¬trici fluviali, per impedire che fossero distrutte o asportate dai tedeschi; o l’azione di coloro che s’improvvisarono guide e accompagnatori delle pattuglie alleate.
La resistenza pontina fu soprattutto passiva, come ormai la storiografia ammette tranquillamente (v. Guerra totale di Gabriella Gribaudi, Bollati-Boringhieri 2005) ma essa assunse anche vesti attive. Se ne fece promotore il gruppo che operò sui Colli Lepini, ma anche un gruppo che faceva capo ad un ufficiale degli Alpini, Gino Rossi. Sulla prima iniziativa ho raccolto due distinte ma coincidenti testimonianze, in epoche diverse. Esse sono dell’avvocato Italo Ficacci di Sezze, che intervistai nel 1973, pochi anni prima della sua morte (il fi¬glio Giuseppe confermò in seguito la sostanza delle dichiarazioni) e dell’avvocato Ales¬sandro Onorati, di Sermoneta, che nel 1984 mi ha rilasciato la dichiarazione scritta di cui ho parlato poco sopra. Queste notizie hanno un preciso riscontro nei ricordi che Tito Vittorio Gozzer ha registrato sul quotidiano Il Tempo di Roma. Subito dopo lo sbarco di Anzio-Nettuno, dunque, i gruppi poli¬tici clandestini romani tentarono di esportare una certa loro organizza¬zione, soprattutto per svolgere – come afferma Gozzer – attività di so¬stegno dell’azione militare alleata dalle retrovie tedesche. E così, nel febbraio 1944 giunsero a Sermoneta Alfredo Roncuzzi, farma¬cista, Tito Vittorio Gozzer, professore d’inglese, Amerigo Mei, ingegne¬re e Nullo Cicognani, un insegnante giovanissimo, che erano stati indi¬rizzati nel centro lepino dall’avvocato Gaspare Bernabei, un bassianese che viveva a Velletri, zio di Alessandro Onorati. Ed era proprio Onorati che i quattro cercavano, per tentare di stabilire con lui una base. Gaspare Bernabei faceva parte della componente cattolica del Comitato di Libe¬razione Nazionale, ed era strettamente collegato con l’avvocato Ercole Chiri, l’avvocato Annibale Angelucci e il dottore Alberto Canaletti Gaudenti, tutti appartenenti alla Democrazia Cristiana romana che operava in clandesti¬nità. Bernabei era anche in contatto con Severino Spaccatrosi, a sua vol¬ta dirigente comunista, particolarmente interessato ad estendere la pre¬senza resistenziale sui colli Lepini. Ecco quanto ricorda Alessandro Onorati dopo il suo contatto con i quattro inviati.
“Informai subito Giulio Giovannoli e Gilberto Marchioni e insieme, piano piano, formammo un gruppo, chiamando a farne parte Domenico Galiano, Alfonso Torelli, l’ingegnere Bruno Piazza, ebreo; si aggregarono subi¬to i fratelli Luigi, detto Fiorello, e Candido Zaccheo, sottufficiali dei carabinieri, Angelomaria e Glicerio Rossi, Mario Manciocchi, Luigi Caval¬lucci, medico, Pietro Cavallucci, avvocato, Renato Bertollini e altri. Lu pronta adesione fu indubbiamente sollecitata dal bisogno di libertà e dal bisogno di cacciare dal paese i tedeschi, da tutti considerati ormai non più alleati poco sentiti, ma feroci occupanti. E questa fu l’aspirazione popolare, l’ideale diffuso che sostenne allora in Italia, in tutta Italia, ogni moto di ribellione, anche episodico, e ogni movimento di resistenza. Aiutato da Giulio Giovannoli riuscii a sventare il tentativo di due spie, che venivano da Roma, di infiltrarsi nel gruppo, del quale noi negammo naturalmente l’esistenza”.
I quattro che erano giunti da Roma tentarono di tessere la tela anche a Sezze, appoggiandosi ai Ficacci, i quali accettarono il rischio. Nacquero, tuttavia, anche dei problemi, comprensibilissimi: Giuseppe Di Trapano di Sezze (che fu sindaco comunista a Sezze e che ho pure intervistato nel 1973, prima della sua morte, mi ha confermato le cose), contattato da Roncuzzi, espresse molte riserve per il timore che azioni militari e sabotaggi esponessero la popolazione a rappresaglie. Si costituì, comunque, un piccolo nucleo che comprendeva anche due soldati russi fuggiti dai campi di prigionia. Fra Sezze e Sermoneta venne avviata un’attività volta soprattutto alla raccolta di armi (se ne compravano persino dai tedeschi, scambiando con loro cibo), che venivano nascoste sotto un caminetto rustico in una capanna eretta in un piccolo uliveto sul monte Semprevisa; al sabotaggio di linee telefoniche, all’aiuto a prigionieri sfuggiti ai tedeschi. Furono anche svolte azioni ai danni di autovetture militari tedesche, con la “semina” di chiodi a tre punte lungo la strada Valvisciolo-Bassiano-Sezze, ma soprattutto al bivio di Priverno, punti che offrivano la possibilità di ritirarsi verso Roccagorga, Maenza e Sezze. Gli uomini arrivavano la sera, seminavano sulle strade i chiodi costruiti da un ferraio di Sezze, tale Perugini, sulla base delle indica¬zioni fornite dai gruppi romani. Erano fatti con due tondini di ferro sal¬dati in croce, piegati e limati alle estremità, efficaci mezzi per mettere fuori uso, sia pure per poco tempo, le vetture tedesche che transitavano nella zona. Un’altra attività fu quella di avvicinare e dissuadere i giovani repubblichini inquadrati nel battaglione San Marco, che operava nella zona a sostegno dei tedeschi. Il gruppo, secondo quanto ricordano Alessando Onorati nella lettera inviatami, e Tito Gozzer, fu appoggiato da Marguerite Chapin, moglie di Roffredo Caetani, duchessa di Sermoneta, co¬gnata dell’allora ministro della Giustizia del Governo Roosevelt, Francis Biddle. I Caetani erano rifugiati nel castello di Sermoneta, dove ospita¬rono e nascosero ripetutamente Tito Gozzer e Amerigo Mei, mettendo anche a disposizione vestiario, viveri e denaro per aiutare i militari allea¬ti nascosti sulle montagne fra il monte Lupone e il Semprevisa.
Questo accadeva sui colli. In pianura, e precisamente a Borgo Vodice, era invece abortito un tentativo di organizzazione avviato per tempo dal dottor Giovanni Rebora, un piemontese che faceva il farmacista a Terracina, e dal geometra Gino Rossi, che lavorava per il Comune di San Felice Circeo. Quest’ultimo si proclama in documento reso pubblico dai servizi segreti britannici,come Capo delle bande partigiane dell Abruzzo e del Lazio meridionale, e risulta aver predisposto per gli Alleati un dettagliato documento nel quale vengono fornite notizie sul dislocamento di unità militari tedesche lungo la costa pontina e il suo immediato entroterra. Questa notizia è confermata per la zona di San Felice Circeo nel libro Il Circeo scritto dal barone Luigi Aguet, proprietario di grandi estensioni del promontorio del Circeo. Il documento serviva in previsione di uno sbarco alleato lungo la costa pontina. Gino Rossi, la cui figura sta subendo un processo di apprezzamento dalle ultime ricerche, sarebbe stato catturato dai tedeschi e trasferito a Roma, presso il carcere di Regina Coeli, per essere fucilato il 2 febbraio 1944 per la sua attività a Forte Bravetta. Proprio sull’attività di Gino Rossi ho avuto la possibilità di visionare uno scritto segnalatomi da un cortese amico, il signor Lorenzo Tonioli di Bologna, e riportato nel libro Tormento e gloria. Verità alla ribalta, di Giorgio Genzius (soprannome di Roberto), Editrice Guzzo, Firenze 1964, come si dirà più avanti.
Mentre nel nord provincia avvenivano questi fatti, a sud, nella zona di Castelforte, a ridosso della linea di fronte, si formò un altro nucleo che, pur senza giungere ad azioni clamorose, svolse un compito di raccordo difficile e pericoloso. Comprendeva soprattutto giovani che si erano sottratti alla coscrizione saloina e che si raccolsero attorno all’allora tenente colonnello Giuseppe Aloia castelfortese, che sarebbe divenuto Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e poi della Difesa. Le azioni furono volte soprattutto a prevenire la distruzione di alcune opere pubbliche. A questo proposito, e sia pure senza il conforto di nomi-protagonisti, occorre ricordare l’iniziativa di alcuni cittadini che riuscirono ad impedire che la galleria ferroviaria sulla tratta Monte San Biagio-Priverno, della direttissima Roma-Napoli, venisse minata. Vi riuscirono solo a metà, salvando l’ingresso del tunnel nel lato di Monte San Biagio. Il percorso sarebbe stato poi ripristinato nel luglio 1944 per il passaggio dei primi convogli alleati. In appendice pubblichiamo un elenco di operazioni militari anti-tedesche condotte da nuclei organizzati nel Lazio a sud di Roma.
L’attività partigiana di Mariano Mandolesi
Infine, parlando di resistenza è difficile dimenticare il nome di Mariano Mandolesi, morto il 20 maggio 2001 a Gaeta, città in cui era nato il 9 settembre del 1920. È sconosciuto dalle giovani generazioni, e anche dimenticato da quelle meno giovani, malgrado egli debba essere considerato uno dei comandanti partigiani più intelligenti, coraggiosi e, soprattutto, sempre sorridenti, anche nei molti momenti di sconforto che pure dovette passare negli ultimi anni della sua vita. Militare a Montagnana di Padova, alla proclamazione dell’armistizio rifiutò di lasciare le armi e organizzò insieme ad altri commilitoni una squadra che si dette alla montagna. L’impresa che gli è valsa la medaglia d’argento per merito partigiano fu la presa del carcere di Baldenich e la liberazione di 73 detenuti politici e partigiani. Guidando 25 uomini che facevano parte della brigata garibaldina Carlo Pisacane, che lui comandava e che era forte di circa 600 uomini, operante nel Bellunese, nella Valle di Biois nell’Agordino, Mandolesi, che aveva adottato il nome di battaglia di “Carlo”, concepì un piano per entrare nel carcere: travestì alcuni suoi uomini da tedeschi con divise prese a suo tempo alle SS e mise su un camion altri uomini che fingevano di essere prigionieri che dovevano essere trasportati in carcere dopo un rastrellamento. Lui stesso indossava una divisa tedesca, Giunti al portone del carcere, chiese ai carabinieri di guardia che aprissero il varco; i carabinieri non sospettarono nulla e aprirono il portone, facendo entrare i 25 che, una volta dentro, disarmarono carabinieri e guardie carcerarie, si impossessarono delle chiavi delle celle, liberarono i prigionieri e rientrarono nella loro base alla Casèra dei Ronch. Era il 16 giugno 1944. Il 25 aprile 1945, poi, la brigata Pisacane comandata da Mandolesi insieme ad altri reparti partigiani bloccò la 10^ divisione corazzata tedesca in ritirata verso la Germania, costringendola alla resa. Quest’azione gli valse la Croce di guerra conferitagli dal generale Mark Clark comandante le forze alleate in Italia.
Il piano di Gino Rossi
Le prime notizie su Gino Rossi in Agro Pontin sono quelle che ho riportato sopra: in esse si fa riferimento ad una sua attività presso il Comune di San Felice Circeo. In generale, invece, le fonti citano il suo nome come quello di un ufficiale degli Alpini, qui inviato in collaborazione con l’americano OSS (Office for Strategic Service) in vista della avanzata alleata da sud dopo il previsto sfondamento della Linea Gustav. Il libro sopra citato di Genzius-Guzzo (Guzzo era un filosofo scomparso qualche anno fa) riporta un lungo documento che si dice “fornito dalle Autorità inglesi, cap. Howart, per ricordare l’eroico caduto Ten. Col. Gino Rossi, grande artefice della Resistenza Italiana”. pag. 95 e segg.. In esso Rossi si dichiara “Ufficiale superiore degli Alpini, Comandante delle Bande Ar¬mate Italiane dislocate nella Regione Agro Pontino”. Vi si illustra un “Piano operativo studiato ed attuato dal col. Gino Rossi (Bixio)” allo scopo di agevolare la risalita dell’esercito alleato dal sud Italia. In particolare il Piano prevede e propone un possibile sbarco alleato tra Terracina e Torre Astura, con epicentro il Circeo, e in vista di ciò, fornisce alle truppe alleate una dettagliata descrizione della dislocazione e dei contingenti militari tedeschi, unitamente alle armi di cui disponevano, in tutti i borghi e città tra Terracina e l’area litoranea di Littoria. E’ un elenco che dimostra una conoscenza dei luoghi (e anche alcune incertezze sulle esatte denominazioni) che non poteva non provenire da una rete di informatori, che configurerebbe un vero e proprio netwotk resistenziale. E’ straordinaria anche la circostanza che il progettato sbarco denunci alcune precise coincidenze con lo sbarco che gli Alleati avrebbero lanciato effettivamente trenta giorni dopo tra Tor San Lorenzo e Torre Astura-Borgo Podgora, con nucleo principale l’abitato di Nettunia, oggi Anzio e Nettuno. Proprio per questo il documento diventa un’altra dimostrazione della tesi che afferma l’esistenza di un nucleo resistenziale in terra pontina, che farebbe giustizia delle diffidenze – queste, sì, mai documentate – affacciate dai negatori.
Il ricordato barone Luigi Aguet, nel suo stesso libro Il Circeo ricorda che dopo la fucilazione di Giro Rossi, i partigiani si riunirono alla fine della guerra in una cooperativa di impresa per la effettuazione di lavori, che però non ebbe grande fortuna.
Nota. il presente articolo è già stato pubblicato sulla Rivista Annali del Lazio meridionale, diretta dal professor Antonio Di Fazio.
Scusi ho inteso male io, ha ragione lei
Forse intendeva Alessandro Di Trapano (sindaco comunista di Sezze) e non Giuseppe, visto che all’epoca a Sezze c’era si un Giuseppe Di Trapano ma era democristiano (andreottiano) e non è mai stato sindaco.
Spero di esserle stato di aiuto
Distinti saluti
Sulla figura di Gino Rossi:
“Fra questi Gino Rossi, “Bixio”, che entra a far parte del Comitato
Esecutivo dell’organizzazione. Architetto, sposato, tenente colonnello
dell’esercito, si unisce al Mcd’I, assieme ai soldati che riesce a trattenere
dallo sbandamento dell’8 settembre e che organizza sul Monte
Circeo. Fornisce all’esercito anglo-americano un piano operativo per
l’occupazione delle regioni del Lazio e dell’Abruzzo e tenta di organizzare
un centro di resistenza a Borgo Vodice, ma senza successo”.
Fonte: http://www.comune.roma.it/PCR/resources/cms/documents/Forte_Bravetta_33_65.pdf