Il 19 novembre 2004, su invito del Comune di Formia, ebbi l onore di ricordare i 90 (allora) anni di Pietro Ingrao, ospite d’ onore della serata. Io avrei dovuto rivolgergli alcune domande, per provocarne risposte capaci di tratteggiare la vita del grande uomo politico nativo di Lenola (Latina). E per questo gli avevo chiesto un appuntamento a Roma, nella sua modesta e dignitosa casa. Mi accolse insieme alla sua segretaria personale, che assistette al nostro colloquio durato oltre un ora. Io avevo appena letto “Pietro Ingrao il compagno disarmato” di Antonio Galdo e avevo le idee abbastanza chiare su cosa chiedergli. Il resto lo affidavo all’ improvvisazione che sempre assiste un giornalista. Gli rivolsi un paio di domande “provocatorie” e Pietro Ingrao mi rispose, dopo una breve meditazione, con una tranquillità, una precisione e una fermezza che, forse, era un suo compiacimento, ma che mi dette chiara la idea dello spessore dell Uomo. Poi, parlando di come intendevo condurre la serata in suo onore, gli lessi il testo che aveva preparato, e mi disse che avevo ecceduto in complimenti, e ne avrebbe graditi molti di meno. Io mi sentii rassicurato, e rimasi convinto che quei complimenti erano da me dovuti. Poi gli chiesi di riempire un piccolo vuoto della sua biografia a me nota, quello del passaggio da Roma a Milano e della assunzione delle prime responsabilità in senso al PCI. Mi disse: Se ha una penna e un poco di carta glielo detto: e senza una pausa mi riferì della “sua” Milano, del primo comizio, dei persistenti pericoli, netto, diretto, fermo nei ricordi e nel raccontare i fatti. Aveva già 90 anni, ottimamente portati. Volle salutarmi con grande simpatia (io ero, come sono, un signor nessuno) e mi accompagnò alla porta. Dopo la mia relazione introduttiva letta a Formia il 19 novembre 2004, mi ringraziò ed ebbe inizio l’ intervista pubblica che dovevo fargli. Doveva essere così annoiato di sentire la mia voce, che dopo la prima domanda iniziò a parlare con la solita voce bassa, pacata, inesorabile snocciolando tutti i suoi ricordi di studente a Formia, del liceo che anche io frequentai, di vincitore dei ludi universitari che gli avevano fruttato una vittoria nella competizione poetica (una poesia a Littoria di cui, disse, mi vergogno oggettivamente), del padre segretario generale del Comune. Fu una bella serata.
Ora Pietro Ingrao ha festeggiato anche i 100 anni, nel frattempo ha scritto un bel libro di ricordi /straordinari quelli dedicati al suo paese, Lenola) , “Volevo la luna”, da Einaudi. Non l’ ho più rivisto di persona, ma credo di dovergli questo ricordo, riportando (in grande sintesi) le cose che dissi quella sera del 19 novembre 2004 a Formia.
Ingrao non è un uomo politico “seriale”, anzi forse è uno degli uomini politici più “anomali”: dal punto di vista del tipo e della quantità di esperienze vissute; della importanza del suo contributo alla costruzione della dialettica democratica utilizzando gli strumenti pur imperfetti della dialettica marxista; della capacità di assumere le forti responsabilità di chi ha vissuto sempre ai vertici, là dove si decide o dove si subiscono le altrui decisioni; della lucidità nella costante presenza a se stesso, ossia di una coerenza che è fedeltà ad una idea anche se poi quell’idea rivela tratti di aspra contraddizione e costringe a determinazioni altrettanto difficili. E, infine, è “anomalo” per il numero e la qualità delle delusioni patite. Questa sera Pietro Ingrao è ospite di Formia per ricordare gli anni in cui egli a Formia si è formato frequentando il Ginnasio-Liceo “Vitruvio Pollione”. E forse saremo diversi stasera a vantare questa pur diacronica colleganza scolastica.
Pietro Ingrao nasce il 30 marzo 1915 a Lenola, che all’epoca contava poco più di 2800 abitanti, contro gli oltre 4000 attuali. Viene da una famiglia che oggi si direbbe della buona borghesia, ma una borghesia impegnata, se si pensa che il nonno Francesco, nonno Ciccio, era stato garibaldino ed era passato attraverso alcune avventure proprio per il suo carattere fortemente autonomo e combattivo. Lenola potrebbe dargli poco e Pietro Ingrao viene a studiare a Formia, dove il padre Renato è Segretario generale del Comune, prima di diventare Segretario generale della nuova Provincia di Littoria. Ingrao appartiene ad una temperie intellettuale che ha l’area ausona come ricca fucina: a Fondi vivono e si formano i giovani Libero De Libero, Giuseppe e Pasquale De Santis, Dante Di Sarra, poi Domenico Purificato e Guido Ruggiero. Si diploma al liceo classico Vitruvio Pollione di Formia, quindi frequenta l’Università di Roma. La routine dell’impegno universitario è interrotta dalla frequentazione affettuosa della casa patriarcale di Lenola e da quella, salutare più che mondana, della spiaggia di Sperlonga, all’epoca del tutto estraniata rispetto alle correnti del traffico turistico aperte nel 1959 dalla nuova litoranea Flacca. Sono gli anni in cui il fascismo ha fortificato le sue basi e imposto le sue regole. Anche Ingrao indossa la divisa fascista che tutti i giovani all’epoca dovevano indossare. Nel 1934, studente universitario diciannovenne a Roma, partecipa ai Littoriali della cultura e dell’arte riservati ai giovani iscritti al Guf, e presenta una poesia, Coro per la nascita di una città, un inno a Littoria. Giunge terzo dopo Leonardo Sinisgalli e Attilio Bertolucci. Littoria è “come cattedrale nella selva/come isola trionfante sulle acque”. “Era proprio una brutta poesia – ha detto Ingrao – ma per me ha rappresentato l’occasione per aprirmi al mondo che mi circondava e che non conoscevo”. Di questo mondo facevano parte i suoi idoli: Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba, Salvatore Quasimodo. La loro è una poesia nuova, del tutto diversa da quella di Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli (proprio Giovanni Pascoli fu il tema della sua tesi di laurea in lettere), conosciuta negli studi al Vitruvio Pollione, e in parte amata prima di conoscere e amare i poeti ermetici.
Conosciamo la figura di Ingrao soprattutto attraverso l’immagine dell’uomo politico: l’uomo delle responsabilità di vertice – nel partito e nello Stato -, la cui parola ha pesato su decisioni importanti, avvertendone tutto il peso; l’Uomo che ha vissuto la sua avventura con tormento. E oggi che la politica fa parte di orizzonti più lontani, la sua riflessione è stata spesso attratta da una rilettura dei passi compiuti. E degli errori commessi, a partire da quello che egli ha definito decisivo. Era il 1956, e l’Ungheria s’era ribellata alla soffocante presenza sovietica. Ingrao era direttore dell’Unità e, per il suo lavoro, molto vicino a Palmiro Togliatti, Ingrao, che aveva difeso il primo intervento sovietico con un articolo che, in seguito, criticò, al momento del secondo intervento ebbe forti dubbi, che espresse a Togliatti, e che poi superò, sia pure con alcune riserve, cosicché anche il secondo intervento non fu criticato. Fu un’operazione di cui oggi Ingrao parla ricordando la “grande angoscia” con cui ne scrisse. Anzi, fu quello che oggi definisce l’Errore che “ci accompagnò per tutta la nostra storia”. L’Errore, senza aggettivi, con l’iniziale maiuscola: l’errore di essersi schierati per l’Urss e contro le aspirazioni alla autonomia dell’Ungheria. All’epoca, esso costò al Pci 200 mila tessere stracciate e una condanna collettiva lunga decenni da parte dell’altra società italiana. Forse la coscienza di quell’Errore guiderà Ingrao al Gesto “eretico”: rompere la ferrea regola del Pci di accettare senza contestazioni le decisioni dei vertici. “Allora non capimmo – ricostruisce oggi – o non volemmo capire l’errore pesante di non aver intuito l’aspetto oppressivo del sistema sovietico”. Ma non è un pentimento, lo spiega lui stesso: “l’autocritica mi rafforza, il pentimento non è una parola che appartiene al mio linguaggio, ha un sapore di sacrestia. Ma se pentirsi significa riconoscere gli errori, allora io non ho paura di questa parola”.
Ingrao, dunque, è l’uomo che per disciplina di partito ha accettato di firmare sull’Unità la condanna dell’Ungheria ribelle; ma è anche il primo comunista italiano che ha inventato una espressione che, passando attraverso l’anatema, ha aiutato il vecchio Pci a rompere schemi ritenuti immodificabili: fu lui che rivendicò il diritto al dissenso, che divenne teoria morale nel suo famoso discorso all’XI Congresso del Pci del 1966. Il diritto al dissenso, insieme alla fedeltà al proprio ideale lo avrebbe poi portato all’ abbandono del partito che aveva accompagnato la sua vita. Avvenne il 15 maggio 1993. Ma quell’abbandono non fu conseguenza di disamore, fu un atto di distinzione, di autonomia, di rispetto per la propria storia personale, di fronte alle modifiche che il vecchio Partito comunista stava per subire, fino a perdere il nome stesso.
Ma come divenne comunista, Pietro Ingrao? Il suo comunismo – dice Antonio Galdo – affonda nell’albero geneaologico di un nonno garibaldino e mazziniano. Ne abbiamo accennato. Compì l’inevitabile trafila della divisa fascista, ma durante la guerra si trasferì al Nord. Qui visse gli entusiasmi del 25 luglio 1943, della caduta di Mussolini; e qui il 26 luglio 1943 pronunciò il suo primo discorso pubblico da comunista, a Porta Venezia. Poi, nel dicembre 1943 ritornò a Roma, nell’Unità ancora clandestina. Diventò lui stesso un clandestino, ricercato dei tedeschi e dei fascisti della Rsi. Alla fine della guerra, appena trentenne, viene chiamato a dirigere l’Unità, organo del Pci. Ricoprirà l’incarico per poco meno di dieci anni, fino al dicembre 1956. Poi l’elezione alla Camera dei Deputati, dove per lunghi anni fu capogruppo del Pci; e della quale, nel 1976, fu nominato al prestigioso incarico di Presidente, primo comunista ad essere investito della terza magistratura dello Stato, a parte la breve parentesi di Terracini. Sembra il destino di un vincitore, diventa invece un destino di dure sconfitte. Tra esse quella del 18 aprile 1948, quando la Dc vince la consultazione elettorale considerata decisiva per l’Italia, a danno del Fronte del Popolo, che raccoglie il Pci e la sinistra. Anche la sua Lenola gli dà un dispiacere politico, perché il Pci vi raccoglie appena 17 voti sui 3000 abitanti. E sembra quasi una beffa che il trentino Alcide De Gasperi venga a smaltire presso l’Hotel Miramare di Formia le fatiche del trionfo proprio in quella Formia in cui Ingrao aveva studiato.
L’esperienza all’Unità fu forte, e fu una scuola anche di autonomia intellettuale e politica, che oggi si può cogliere molto meglio di quanto non fosse possibile all’epoca. Come scotto di questa libertà di pensiero, ad esempio, nel 1950 Ingrao dovette subire a Bucarest, durante una riunione del Cominform, una dura critica di parte sovietica – un processo, lo chiamò lui – perché la linea del giornale era giudicata poco amica. Altri tormenti sul cammino politico e umano di Ingrao furono il rapimento Moro e la “politica della fermezza” di cui egli stesso fu, con altri, assertore (“Sconto tutti i limiti di tale asprezza… di quella nostra idea ”tutto è politica” che ha condizionato la mia generazione”); poi la caduta del Muro, la fine di un’epoca, la trasformazione del Pci in Pds, poi in Ds, la “Cosa Uno” e Due; e il distacco dal suo partito, ma non dall’ispirazione comunista; e infine la sua uscita volontaria dal Parlamento, nel 1992, con la rinuncia alla candidatura dopo 43 anni di ininterrotta presenza.
Ed è iniziata una nuova fase, nella quale da “filosofia del fare” la Politica è divenuta filosofia e basta, che lo ha portato a rifiutare totalmente la violenza e ad anteporre l’opzione del pacifismo e del disarmo ad ogni altra opzione. Dopo aver conosciuto la violenza del sovietismo e dello stalinismo, egli affronta, sposando la pace, il tema del rapporto pace-violenza dall’alto di una coscienza che conosce l’autocritica. Il salmista (Sl 84) ricorda che giustizia e pace si baceranno, e in fondo sono i due obiettivi che Ingrao ha posto come suo traguardo di uomo laico. Una laicità che non gli impedisce di dichiarare il suo amore per la pagina del Vangelo sulle Beatitudini; e di ricordare che Giovanni Paolo II è un papa che ha combattuto il marxismo, ma ha saputo sottolineare la crudeltà del capitalismo. E’ anche il papa che rigetta la dottrina della guerra preventiva, una guerra, dice Ingrao, “che santifica l’uso delle armi”.
Ma cos’è il pacifismo per Ingrao? “Non è solo una dichiarazione di fede … è un soggetto politico-sociale capace di intervenire nei punti di crisi contro la pratica della violenza e per la individuazione e la costruzione di vie pacifiche alla soluzione dei conflitti del mondo” “Dobbiamo rompere uno schema che era profondamente radicato in tutti noi. E’ lo schema della rivoluzione come assalto armato al Palazzo d’inverno”, afferma, rigettando il marxiano concetto di “violenza come levatrice della storia”. “Non c’è fine di liberazione che giustifichi il mezzo della violenza”, conclude, ribaltando la dottrina, prevalente lungo l’intero arco del Novecento, il c.d. “secolo breve”, “della identificazione tra la politica e la guerra”. “Il mio Novecento è stato terribile – commenta Ingrao – ma temo che il vostro secolo non sarà migliore del nostro: vedo un mondo dominato dall’arte collettiva dell’uccidere”. Ma “per fortuna, la politica non è morta”. E a questa funzione mallevadora della politica, una funzione nuova, come si diceva, Ingrao affida la rottura dei vaticini funesti.
Un’ultima notazione. Dopo l’esordio poetico ai Littoriali, Ingrao ha continuato a scrivere poesie, di nascosto. Il suo esordio a stampa è solo del 1986, con la raccolta Il dubbio dei vincitori, cui seguiranno L’alta febbre del fare (1997) e Variazioni serali che è del 2000.
Se così si può dire, la poesia è il lungo filo che unisce il giovane studente formiano all’uomo politico che aveva dedicato al “fare” ogni sua energia intellettuale, ma trascinando sempre nel suo bagaglio una parola: Dubbio. “Una parola che mi sono sempre portato dietro e alla quale non rinuncerei mai”: non segno di debolezza, ma stimolo alla ricerca. E non trovo affatto strano che un uomo che ha vissuto guardando all’azione, alla concretezza, anche quella più straziante e dolorosa, abbia sempre sentito bisogno di rifugiarsi nella parola pensata nell’alta sintesi che la poesia impone. E la sintesi è sempre sorella Povertà, sorella Umiltà. “Anche le sue sconfitte – ha scritto Antonio Galdo – non hanno alcuna solennità”: sono il segno dell’antico mondo contadino di Lenola, che alle sconfitte era abituato e le considerava come un inevitabile passaggio della vita, un dolore senza angosce. Anche se due dei suoi versi forti dicono: “Pensammo una torre./Scavammo nella polvere”. E’ una dichiarazione di impotenza? E’ la giustificazione di una sua sperata risposta positiva alla “lusinga del silenzio”, al fascino della contemplazione?
Sono domande che poniamo al nostro Ospite.
Nota di lettura – Questo testo è stato, a titolo di cortesia, sottoposto alla preventiva lettura di Pietro Ingrao, al quale era stato inviato via e-mail attraverso la sua collaboratrice Silvia Sgaravatti. Con lui è stato discusso nella sua abitazione romana il giorno 16 novembre 2004, dalle 10.30 alle 12. Tutti i passaggi scritti in blu sono note e modifiche apportate da Pietro Ingrao. Il mio testo attinge molto da Antonio Galdo, ma Ingrao mi ha dichiarato di non condividere alcuni passaggi del libro..
Poiché nel mio scritto mancava la parte biografica del periodo compreso tra la fuga da Roma e la clandestinità, Ingrao mi ha dettato a braccio il testo che segue. Essendo molto particolare, ho concordato con Ingrao che, pur annotandolo, non lo avrei letto con la presentazione, per dare a lui l’occasione di parlarne direttamente, come poi ha fatto.
““Si iscrisse, come era d’obbligo, alle organizzazioni giovanili fasciste, partecipò ai Littoriali, ma nel 1936, di fronte alla guerra di Spagna e, soprattutto, sotto la spinta e la sollecitazione di suoi giovani compagni, primo fra tutti Antonio Amendola, figlio di Giovanni, cominciò il suo distacco dal regime fascista, che poi divenne vera e propria cospirazione. Crebbe, così, a Roma un gruppo di giovani (oltre Amendola, il fratello Pietro, Mario Alicata, Paolo Bufalini, Antonio Giolitti) con i quali iniziò una trama cospirativa di ispirazione comunista.
Naturalmente la polizia fascista era abile e vigilante e alcuni dei giovani (Lucio Lombardo Radice e Aldo Natoli) finirono in carcere. Ingrao allora si salvò, ma alla fine del 1942 arrivò un’altra retata. Fu arrestato anche Maio Alicata, uno dei capi, e Ingrao sai salvò dalle manette fuggendo a Milano, dfove era un altro gruppo clandestino di comunisti guidato dal siciliano Salvatore Di Benedetto. Poi si trasferì sulle montagne della Sila, sempre protetto dai compagni, e dalla Calabria ritornò a Milano, dove lo colse la vicenda del 25 luglio 1943 e la caduta di Mussolini.”
PIETRO INGRAO, CENTO ANNI
il 19 novembre 2004, su invito del Comune di Formia, ebbi l onore di ricordare i 90 (allora) anni di Pietro Ingrao, ospite i onore della serata. Io avrei dovuto rivolgergli alcune domande, per provocarne risposte caèpaci di tratteggiare la vita del grande uomo politico nativo di Lenola (Latina). E per questo gli avevo chiesto un appuntamento a Roma, nella sua modesta e dignitosa casa. Mi accolse insieme alla sua segretaria personale, che assistette al nostro colloquio durato oltre un ora. Io avevo appena letto “Pietro Ingrao il compagno disarmato” di Antonio Galdo e avevo le idee abbastanza chiare su cosa chiedergli. Il resto lo affidavo alla improvvisazione che sempre assiste un giornalista. Gli rivolsi un paio di domande “provocatorie” e Pietro Ingrao mi rispose, dopo una breve meditazione, con una tranquillità, una precisione e una fermezza che, forse, era un suo compiacimento, ma che mi dette chiara la idea dello spessore dell Uomo. Poi, parlando di come intendevo condurre la serata in suo onore, gli lessi il testo che aveva preparato, e mi disse che avevo ecceduto in compolimenti, e ne avrebbe graditi molti di meno. Io mi sentii rassicurato, e rimasi convinto che quei comoplimenti erano da me dovuti. Poi gli chiesi di riempire un piccolo vuoto della sua biografia a me nota, quello del passaggio da Roma a Milano e della assuznione delle prime responsabilità in senso al PCI. Mi disse: Se ha una penna e un poco di carta glielo detto: e senza una pausa mi riferì della “sua” Milano, del primo comizio, dei persistenti pericoli, netto, diretto, ferno nei ricordi e nel raccontare i fatti. Aveva già 90 anni, ottimamente portati. Volle salutarmi con grande simpatia (io ero, come sono, un signor nessuno) e mi accompagnò alla porta. Dopo la mia relaxzione intrdodittiva letta a Formia il 19 novembre 2004, mi ringraziò ed ebbe inizio l intervista pubblica che dovevo fargli. Doveva essere così annoiato di sentire la mia voce, che dopo la prima domanda iniziò a parlare con la solita voce bassa, pacata, inesorabile snoccioando tutti i suoi ricordi di studente a Formia, del liceo che anche io frequentai, di vincitore dei ludi universitari che gli avevano fruttato una vittoria nella competizione poetica (una poesia a Littoria di cui, disse, mi vergogno oggettivamente), del padre segretario generale del Comune. Fu una bella serata.
Ora Pietro Ingrao ha festeggiato anche i 100 anni, nel frattempo ha scritto un bel libro di ricordi /straordinari quelli dedicati al suo paese, Lenola) , “Volevo la luna”, da Einaudi. Non l ho più rivisto di persona, ma credo di dovergli questo ricordo, riportando (in grande sintesi) le cose che dissi queòlla sera del 19 novembre 2004 a Formia.
Ingrao non è un uomo politico “seriale”, anzi forse è uno degli uomini politici più “anomali”: dal punto di vista del tipo e della quantità di esperienze vissute; della importanza del suo contributo alla costruzione della dialettica democratica utilizzando gli strumenti pur imperfetti della dialettica marxista; della capacità di assumere le forti responsabilità di chi ha vissuto sempre ai vertici, là dove si decide o dove si subiscono le altrui decisioni; della lucidità nella costante presenza a se stesso, ossia di una coerenza che è fedeltà ad una idea anche se poi quell’idea rivela tratti di aspra contraddizione e costringe a determinazioni altrettanto difficili. E, infine, è “anomalo” per il numero e la qualità delle delusioni patite. Questa sera Pietro Ingrao è ospite di Formia per ricordare gli anni in cui egli a Formia si è formato frequentando il Ginnasio-Liceo “Vitruvio Pollione”. E forse saremo diversi stasera a vantare questa pur diacronica colleganza scolastica.
Pietro Ingrao nasce il 30 marzo 1915 a Lenola, che all’epoca contava poco più di 2800 abitanti, contro gli oltre 4000 attuali. Viene da una famiglia che oggi si direbbe della buona borghesia, ma una borghesia impegnata, se si pensa che il nonno Francesco, nonno Ciccio, era stato garibaldino ed era passato attraverso alcune avventure proprio per il suo carattere fortemente autonomo e combattivo. Lenola potrebbe dargli poco e Pietro Ingrao viene a studiare a Formia, dove il padre Renato è Segretario generale del Comune, prima di diventare Segretario generale della nuova Provincia di Littoria. Ingrao appartiene ad una temperie intellettuale che ha l’area ausona come ricca fucina: a Fondi vivono e si formano i giovani Libero De Libero, Giuseppe e Pasquale De Santis, Dante Di Sarra, poi Domenico Purificato e Guido Ruggiero. Si diploma al liceo classico Vitruvio Pollione di Formia, quindi frequenta l’Università di Roma. La routine dell’impegno universitario è interrotta dalla frequentazione affettuosa della casa patriarcale di Lenola e da quella, salutare più che mondana, della spiaggia di Sperlonga, all’epoca del tutto estraniata rispetto alle correnti del traffico turistico aperte nel 1959 dalla nuova litoranea Flacca. Sono gli anni in cui il fascismo ha fortificato le sue basi e imposto le sue regole. Anche Ingrao indossa la divisa fascista che tutti i giovani all’epoca dovevano indossare. Nel 1934, studente universitario diciannovenne a Roma, partecipa ai Littoriali della cultura e dell’arte riservati ai giovani iscritti al Guf, e presenta una poesia, Coro per la nascita di una città, un inno a Littoria. Giunge terzo dopo Leonardo Sinisgalli e Attilio Bertolucci. Littoria è “come cattedrale nella selva/come isola trionfante sulle acque”. “Era proprio una brutta poesia – ha detto Ingrao – ma per me ha rappresentato l’occasione per aprirmi al mondo che mi circondava e che non conoscevo”. Di questo mondo facevano parte i suoi idoli: Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba, Salvatore Quasimodo. La loro è una poesia nuova, del tutto diversa da quella di Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli (proprio Giovanni Pascoli fu il tema della sua tesi di laurea in lettere), conosciuta negli studi al Vitruvio Pollione, e in parte amata prima di conoscere e amare i poeti ermetici.
Conosciamo la figura di Ingrao soprattutto attraverso l’immagine dell’uomo politico: l’uomo delle responsabilità di vertice – nel partito e nello Stato -, la cui parola ha pesato su decisioni importanti, avvertendone tutto il peso; l’Uomo che ha vissuto la sua avventura con tormento. E oggi che la politica fa parte di orizzonti più lontani, la sua riflessione è stata spesso attratta da una rilettura dei passi compiuti. E degli errori commessi, a partire da quello che egli ha definito decisivo. Era il 1956, e l’Ungheria s’era ribellata alla soffocante presenza sovietica. Ingrao era direttore dell’Unità e, per il suo lavoro, molto vicino a Palmiro Togliatti, Ingrao, che aveva difeso il primo intervento sovietico con un articolo che, in seguito, criticò, al momento del secondo intervento ebbe forti dubbi, che espresse a Togliatti, e che poi superò, sia pure con alcune riserve, cosicché anche il secondo intervento non fu criticato. Fu un’operazione di cui oggi Ingrao parla ricordando la “grande angoscia” con cui ne scrisse. Anzi, fu quello che oggi definisce l’Errore che “ci accompagnò per tutta la nostra storia”. L’Errore, senza aggettivi, con l’iniziale maiuscola: l’errore di essersi schierati per l’Urss e contro le aspirazioni alla autonomia dell’Ungheria. All’epoca, esso costò al Pci 200 mila tessere stracciate e una condanna collettiva lunga decenni da parte dell’altra società italiana. Forse la coscienza di quell’Errore guiderà Ingrao al Gesto “eretico”: rompere la ferrea regola del Pci di accettare senza contestazioni le decisioni dei vertici. “Allora non capimmo – ricostruisce oggi – o non volemmo capire l’errore pesante di non aver intuito l’aspetto oppressivo del sistema sovietico”. Ma non è un pentimento, lo spiega lui stesso: “l’autocritica mi rafforza, il pentimento non è una parola che appartiene al mio linguaggio, ha un sapore di sacrestia. Ma se pentirsi significa riconoscere gli errori, allora io non ho paura di questa parola”.
Ingrao, dunque, è l’uomo che per disciplina di partito ha accettato di firmare sull’Unità la condanna dell’Ungheria ribelle; ma è anche il primo comunista italiano che ha inventato una espressione che, passando attraverso l’anatema, ha aiutato il vecchio Pci a rompere schemi ritenuti immodificabili: fu lui che rivendicò il diritto al dissenso, che divenne teoria morale nel suo famoso discorso all’XI Congresso del Pci del 1966. Il diritto al dissenso, insieme alla fedeltà al proprio ideale lo avrebbe poi portato all’ abbandono del partito che aveva accompagnato la sua vita. Avvenne il 15 maggio 1993. Ma quell’abbandono non fu conseguenza di disamore, fu un atto di distinzione, di autonomia, di rispetto per la propria storia personale, di fronte alle modifiche che il vecchio Partito comunista stava per subire, fino a perdere il nome stesso.
Ma come divenne comunista, Pietro Ingrao? Il suo comunismo – dice Antonio Galdo – affonda nell’albero geneaologico di un nonno garibaldino e mazziniano. Ne abbiamo accennato. Compì l’inevitabile trafila della divisa fascista, ma durante la guerra si trasferì al Nord. Qui visse gli entusiasmi del 25 luglio 1943, della caduta di Mussolini; e qui il 26 luglio 1943 pronunciò il suo primo discorso pubblico da comunista, a Porta Venezia. Poi, nel dicembre 1943 ritornò a Roma, nell’Unità ancora clandestina. Diventò lui stesso un clandestino, ricercato dei tedeschi e dei fascisti della Rsi. Alla fine della guerra, appena trentenne, viene chiamato a dirigere l’Unità, organo del Pci. Ricoprirà l’incarico per poco meno di dieci anni, fino al dicembre 1956. Poi l’elezione alla Camera dei Deputati, dove per lunghi anni fu capogruppo del Pci; e della quale, nel 1976, fu nominato al prestigioso incarico di Presidente, primo comunista ad essere investito della terza magistratura dello Stato, a parte la breve parentesi di Terracini. Sembra il destino di un vincitore, diventa invece un destino di dure sconfitte. Tra esse quella del 18 aprile 1948, quando la Dc vince la consultazione elettorale considerata decisiva per l’Italia, a danno del Fronte del Popolo, che raccoglie il Pci e la sinistra. Anche la sua Lenola gli dà un dispiacere politico, perché il Pci vi raccoglie appena 17 voti sui 3000 abitanti. E sembra quasi una beffa che il trentino Alcide De Gasperi venga a smaltire presso l’Hotel Miramare di Formia le fatiche del trionfo proprio in quella Formia in cui Ingrao aveva studiato.
L’esperienza all’Unità fu forte, e fu una scuola anche di autonomia intellettuale e politica, che oggi si può cogliere molto meglio di quanto non fosse possibile all’epoca. Come scotto di questa libertà di pensiero, ad esempio, nel 1950 Ingrao dovette subire a Bucarest, durante una riunione del Cominform, una dura critica di parte sovietica – un processo, lo chiamò lui – perché la linea del giornale era giudicata poco amica. Altri tormenti sul cammino politico e umano di Ingrao furono il rapimento Moro e la “politica della fermezza” di cui egli stesso fu, con altri, assertore (“Sconto tutti i limiti di tale asprezza… di quella nostra idea ”tutto è politica” che ha condizionato la mia generazione”); poi la caduta del Muro, la fine di un’epoca, la trasformazione del Pci in Pds, poi in Ds, la “Cosa Uno” e Due; e il distacco dal suo partito, ma non dall’ispirazione comunista; e infine la sua uscita volontaria dal Parlamento, nel 1992, con la rinuncia alla candidatura dopo 43 anni di ininterrotta presenza.
Ed è iniziata una nuova fase, nella quale da “filosofia del fare” la Politica è divenuta filosofia e basta, che lo ha portato a rifiutare totalmente la violenza e ad anteporre l’opzione del pacifismo e del disarmo ad ogni altra opzione. Dopo aver conosciuto la violenza del sovietismo e dello stalinismo, egli affronta, sposando la pace, il tema del rapporto pace-violenza dall’alto di una coscienza che conosce l’autocritica. Il salmista (Sl 84) ricorda che giustizia e pace si baceranno, e in fondo sono i due obiettivi che Ingrao ha posto come suo traguardo di uomo laico. Una laicità che non gli impedisce di dichiarare il suo amore per la pagina del Vangelo sulle Beatitudini; e di ricordare che Giovanni Paolo II è un papa che ha combattuto il marxismo, ma ha saputo sottolineare la crudeltà del capitalismo. E’ anche il papa che rigetta la dottrina della guerra preventiva, una guerra, dice Ingrao, “che santifica l’uso delle armi”.
Ma cos’è il pacifismo per Ingrao? “Non è solo una dichiarazione di fede … è un soggetto politico-sociale capace di intervenire nei punti di crisi contro la pratica della violenza e per la individuazione e la costruzione di vie pacifiche alla soluzione dei conflitti del mondo” “Dobbiamo rompere uno schema che era profondamente radicato in tutti noi. E’ lo schema della rivoluzione come assalto armato al Palazzo d’inverno”, afferma, rigettando il marxiano concetto di “violenza come levatrice della storia”. “Non c’è fine di liberazione che giustifichi il mezzo della violenza”, conclude, ribaltando la dottrina, prevalente lungo l’intero arco del Novecento, il c.d. “secolo breve”, “della identificazione tra la politica e la guerra”. “Il mio Novecento è stato terribile – commenta Ingrao – ma temo che il vostro secolo non sarà migliore del nostro: vedo un mondo dominato dall’arte collettiva dell’uccidere”. Ma “per fortuna, la politica non è morta”. E a questa funzione mallevadora della politica, una funzione nuova, come si diceva, Ingrao affida la rottura dei vaticini funesti.
Un’ultima notazione. Dopo l’esordio poetico ai Littoriali, Ingrao ha continuato a scrivere poesie, di nascosto. Il suo esordio a stampa è solo del 1986, con la raccolta Il dubbio dei vincitori, cui seguiranno L’alta febbre del fare (1997) e Variazioni serali che è del 2000.
Se così si può dire, la poesia è il lungo filo che unisce il giovane studente formiano all’uomo politico che aveva dedicato al “fare” ogni sua energia intellettuale, ma trascinando sempre nel suo bagaglio una parola: Dubbio. “Una parola che mi sono sempre portato dietro e alla quale non rinuncerei mai”: non segno di debolezza, ma stimolo alla ricerca. E non trovo affatto strano che un uomo che ha vissuto guardando all’azione, alla concretezza, anche quella più straziante e dolorosa, abbia sempre sentito bisogno di rifugiarsi nella parola pensata nell’alta sintesi che la poesia impone. E la sintesi è sempre sorella Povertà, sorella Umiltà. “Anche le sue sconfitte – ha scritto Antonio Galdo – non hanno alcuna solennità”: sono il segno dell’antico mondo contadino di Lenola, che alle sconfitte era abituato e le considerava come un inevitabile passaggio della vita, un dolore senza angosce. Anche se due dei suoi versi forti dicono: “Pensammo una torre./Scavammo nella polvere”. E’ una dichiarazione di impotenza? E’ la giustificazione di una sua sperata risposta positiva alla “lusinga del silenzio”, al fascino della contemplazione?
Sono domande che poniamo al nostro Ospite.
Nota di lettura – Questo testo è stato, a titolo di cortesia, sottoposto alla preventiva lettura di Pietro Ingrao, al quale era stato inviato via e-mail attraverso la sua collaboratrice Silvia Sgaravatti. Con lui è stato discusso nella sua abitazione romana il giorno 16 novembre 2004, dalle 10.30 alle 12. Tutti i passaggi scritti in blu sono note e modifiche apportate da Pietro Ingrao. Il mio testo attinge molto da Antonio Galdo, ma Ingrao mi ha dichiarato di non condividere alcuni passaggi del libro..
Poiché nel mio scritto mancava la parte biografica del periodo compreso tra la fuga da Roma e la clandestinità, Ingrao mi ha dettato a braccio il testo che segue. Essendo molto particolare, ho concordato con Ingrao che, pur annotandolo, non lo avrei letto con la presentazione, per dare a lui l’occasione di parlarne direttamente, come poi ha fatto.
““Si iscrisse, come era d’obbligo, alle organizzazioni giovanili fasciste, partecipò ai Littoriali, ma nel 1936, di fronte alla guerra di Spagna e, soprattutto, sotto la spinta e la sollecitazione di suoi giovani compagni, primo fra tutti Antonio Amendola, figlio di Giovanni, cominciò il suo distacco dal regime fascista, che poi divenne vera e propria cospirazione. Crebbe, così, a Roma un gruppo di giovani (oltre Amendola, il fratello Pietro, Mario Alicata, Paolo Bufalini, Antonio Giolitti) con i quali iniziò una trama cospirativa di ispirazione comunista.
Naturalmente la polizia fascista era abile e vigilante e alcuni dei giovani (Lucio Lombardo Radice e Aldo Natoli) finirono in carcere. Ingrao allora si salvò, ma alla fine del 1942 arrivò un’altra retata. Fu arrestato anche Maio Alicata, uno dei capi, e Ingrao sai salvò dalle manette fuggendo a Milano, dfove era un altro gruppo clandestino di comunisti guidato dal siciliano Salvatore Di Benedetto. Poi si trasferì sulle montagne della Sila, sempre protetto dai compagni, e dalla Calabria ritornò a Milano, dove lo colse la vicenda del 25 luglio 1943 e la caduta di Mussolini.”
PIETRO INGRAO, CENTO ANNI
il 19 novembre 2004, su invito del Comune di Formia, ebbi l onore di ricordare i 90 (allora) anni di Pietro Ingrao, ospite i onore della serata. Io avrei dovuto rivolgergli alcune domande, per provocarne risposte caèpaci di tratteggiare la vita del grande uomo politico nativo di Lenola (Latina). E per questo gli avevo chiesto un appuntamento a Roma, nella sua modesta e dignitosa casa. Mi accolse insieme alla sua segretaria personale, che assistette al nostro colloquio durato oltre un ora. Io avevo appena letto “Pietro Ingrao il compagno disarmato” di Antonio Galdo e avevo le idee abbastanza chiare su cosa chiedergli. Il resto lo affidavo alla improvvisazione che sempre assiste un giornalista. Gli rivolsi un paio di domande “provocatorie” e Pietro Ingrao mi rispose, dopo una breve meditazione, con una tranquillità, una precisione e una fermezza che, forse, era un suo compiacimento, ma che mi dette chiara la idea dello spessore dell Uomo. Poi, parlando di come intendevo condurre la serata in suo onore, gli lessi il testo che aveva preparato, e mi disse che avevo ecceduto in compolimenti, e ne avrebbe graditi molti di meno. Io mi sentii rassicurato, e rimasi convinto che quei comoplimenti erano da me dovuti. Poi gli chiesi di riempire un piccolo vuoto della sua biografia a me nota, quello del passaggio da Roma a Milano e della assuznione delle prime responsabilità in senso al PCI. Mi disse: Se ha una penna e un poco di carta glielo detto: e senza una pausa mi riferì della “sua” Milano, del primo comizio, dei persistenti pericoli, netto, diretto, ferno nei ricordi e nel raccontare i fatti. Aveva già 90 anni, ottimamente portati. Volle salutarmi con grande simpatia (io ero, come sono, un signor nessuno) e mi accompagnò alla porta. Dopo la mia relaxzione intrdodittiva letta a Formia il 19 novembre 2004, mi ringraziò ed ebbe inizio l intervista pubblica che dovevo fargli. Doveva essere così annoiato di sentire la mia voce, che dopo la prima domanda iniziò a parlare con la solita voce bassa, pacata, inesorabile snoccioando tutti i suoi ricordi di studente a Formia, del liceo che anche io frequentai, di vincitore dei ludi universitari che gli avevano fruttato una vittoria nella competizione poetica (una poesia a Littoria di cui, disse, mi vergogno oggettivamente), del padre segretario generale del Comune. Fu una bella serata.
Ora Pietro Ingrao ha festeggiato anche i 100 anni, nel frattempo ha scritto un bel libro di ricordi /straordinari quelli dedicati al suo paese, Lenola) , “Volevo la luna”, da Einaudi. Non l ho più rivisto di persona, ma credo di dovergli questo ricordo, riportando (in grande sintesi) le cose che dissi queòlla sera del 19 novembre 2004 a Formia.
Ingrao non è un uomo politico “seriale”, anzi forse è uno degli uomini politici più “anomali”: dal punto di vista del tipo e della quantità di esperienze vissute; della importanza del suo contributo alla costruzione della dialettica democratica utilizzando gli strumenti pur imperfetti della dialettica marxista; della capacità di assumere le forti responsabilità di chi ha vissuto sempre ai vertici, là dove si decide o dove si subiscono le altrui decisioni; della lucidità nella costante presenza a se stesso, ossia di una coerenza che è fedeltà ad una idea anche se poi quell’idea rivela tratti di aspra contraddizione e costringe a determinazioni altrettanto difficili. E, infine, è “anomalo” per il numero e la qualità delle delusioni patite. Questa sera Pietro Ingrao è ospite di Formia per ricordare gli anni in cui egli a Formia si è formato frequentando il Ginnasio-Liceo “Vitruvio Pollione”. E forse saremo diversi stasera a vantare questa pur diacronica colleganza scolastica.
Pietro Ingrao nasce il 30 marzo 1915 a Lenola, che all’epoca contava poco più di 2800 abitanti, contro gli oltre 4000 attuali. Viene da una famiglia che oggi si direbbe della buona borghesia, ma una borghesia impegnata, se si pensa che il nonno Francesco, nonno Ciccio, era stato garibaldino ed era passato attraverso alcune avventure proprio per il suo carattere fortemente autonomo e combattivo. Lenola potrebbe dargli poco e Pietro Ingrao viene a studiare a Formia, dove il padre Renato è Segretario generale del Comune, prima di diventare Segretario generale della nuova Provincia di Littoria. Ingrao appartiene ad una temperie intellettuale che ha l’area ausona come ricca fucina: a Fondi vivono e si formano i giovani Libero De Libero, Giuseppe e Pasquale De Santis, Dante Di Sarra, poi Domenico Purificato e Guido Ruggiero. Si diploma al liceo classico Vitruvio Pollione di Formia, quindi frequenta l’Università di Roma. La routine dell’impegno universitario è interrotta dalla frequentazione affettuosa della casa patriarcale di Lenola e da quella, salutare più che mondana, della spiaggia di Sperlonga, all’epoca del tutto estraniata rispetto alle correnti del traffico turistico aperte nel 1959 dalla nuova litoranea Flacca. Sono gli anni in cui il fascismo ha fortificato le sue basi e imposto le sue regole. Anche Ingrao indossa la divisa fascista che tutti i giovani all’epoca dovevano indossare. Nel 1934, studente universitario diciannovenne a Roma, partecipa ai Littoriali della cultura e dell’arte riservati ai giovani iscritti al Guf, e presenta una poesia, Coro per la nascita di una città, un inno a Littoria. Giunge terzo dopo Leonardo Sinisgalli e Attilio Bertolucci. Littoria è “come cattedrale nella selva/come isola trionfante sulle acque”. “Era proprio una brutta poesia – ha detto Ingrao – ma per me ha rappresentato l’occasione per aprirmi al mondo che mi circondava e che non conoscevo”. Di questo mondo facevano parte i suoi idoli: Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba, Salvatore Quasimodo. La loro è una poesia nuova, del tutto diversa da quella di Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli (proprio Giovanni Pascoli fu il tema della sua tesi di laurea in lettere), conosciuta negli studi al Vitruvio Pollione, e in parte amata prima di conoscere e amare i poeti ermetici.
Conosciamo la figura di Ingrao soprattutto attraverso l’immagine dell’uomo politico: l’uomo delle responsabilità di vertice – nel partito e nello Stato -, la cui parola ha pesato su decisioni importanti, avvertendone tutto il peso; l’Uomo che ha vissuto la sua avventura con tormento. E oggi che la politica fa parte di orizzonti più lontani, la sua riflessione è stata spesso attratta da una rilettura dei passi compiuti. E degli errori commessi, a partire da quello che egli ha definito decisivo. Era il 1956, e l’Ungheria s’era ribellata alla soffocante presenza sovietica. Ingrao era direttore dell’Unità e, per il suo lavoro, molto vicino a Palmiro Togliatti, Ingrao, che aveva difeso il primo intervento sovietico con un articolo che, in seguito, criticò, al momento del secondo intervento ebbe forti dubbi, che espresse a Togliatti, e che poi superò, sia pure con alcune riserve, cosicché anche il secondo intervento non fu criticato. Fu un’operazione di cui oggi Ingrao parla ricordando la “grande angoscia” con cui ne scrisse. Anzi, fu quello che oggi definisce l’Errore che “ci accompagnò per tutta la nostra storia”. L’Errore, senza aggettivi, con l’iniziale maiuscola: l’errore di essersi schierati per l’Urss e contro le aspirazioni alla autonomia dell’Ungheria. All’epoca, esso costò al Pci 200 mila tessere stracciate e una condanna collettiva lunga decenni da parte dell’altra società italiana. Forse la coscienza di quell’Errore guiderà Ingrao al Gesto “eretico”: rompere la ferrea regola del Pci di accettare senza contestazioni le decisioni dei vertici. “Allora non capimmo – ricostruisce oggi – o non volemmo capire l’errore pesante di non aver intuito l’aspetto oppressivo del sistema sovietico”. Ma non è un pentimento, lo spiega lui stesso: “l’autocritica mi rafforza, il pentimento non è una parola che appartiene al mio linguaggio, ha un sapore di sacrestia. Ma se pentirsi significa riconoscere gli errori, allora io non ho paura di questa parola”.
Ingrao, dunque, è l’uomo che per disciplina di partito ha accettato di firmare sull’Unità la condanna dell’Ungheria ribelle; ma è anche il primo comunista italiano che ha inventato una espressione che, passando attraverso l’anatema, ha aiutato il vecchio Pci a rompere schemi ritenuti immodificabili: fu lui che rivendicò il diritto al dissenso, che divenne teoria morale nel suo famoso discorso all’XI Congresso del Pci del 1966. Il diritto al dissenso, insieme alla fedeltà al proprio ideale lo avrebbe poi portato all’ abbandono del partito che aveva accompagnato la sua vita. Avvenne il 15 maggio 1993. Ma quell’abbandono non fu conseguenza di disamore, fu un atto di distinzione, di autonomia, di rispetto per la propria storia personale, di fronte alle modifiche che il vecchio Partito comunista stava per subire, fino a perdere il nome stesso.
Ma come divenne comunista, Pietro Ingrao? Il suo comunismo – dice Antonio Galdo – affonda nell’albero geneaologico di un nonno garibaldino e mazziniano. Ne abbiamo accennato. Compì l’inevitabile trafila della divisa fascista, ma durante la guerra si trasferì al Nord. Qui visse gli entusiasmi del 25 luglio 1943, della caduta di Mussolini; e qui il 26 luglio 1943 pronunciò il suo primo discorso pubblico da comunista, a Porta Venezia. Poi, nel dicembre 1943 ritornò a Roma, nell’Unità ancora clandestina. Diventò lui stesso un clandestino, ricercato dei tedeschi e dei fascisti della Rsi. Alla fine della guerra, appena trentenne, viene chiamato a dirigere l’Unità, organo del Pci. Ricoprirà l’incarico per poco meno di dieci anni, fino al dicembre 1956. Poi l’elezione alla Camera dei Deputati, dove per lunghi anni fu capogruppo del Pci; e della quale, nel 1976, fu nominato al prestigioso incarico di Presidente, primo comunista ad essere investito della terza magistratura dello Stato, a parte la breve parentesi di Terracini. Sembra il destino di un vincitore, diventa invece un destino di dure sconfitte. Tra esse quella del 18 aprile 1948, quando la Dc vince la consultazione elettorale considerata decisiva per l’Italia, a danno del Fronte del Popolo, che raccoglie il Pci e la sinistra. Anche la sua Lenola gli dà un dispiacere politico, perché il Pci vi raccoglie appena 17 voti sui 3000 abitanti. E sembra quasi una beffa che il trentino Alcide De Gasperi venga a smaltire presso l’Hotel Miramare di Formia le fatiche del trionfo proprio in quella Formia in cui Ingrao aveva studiato.
L’esperienza all’Unità fu forte, e fu una scuola anche di autonomia intellettuale e politica, che oggi si può cogliere molto meglio di quanto non fosse possibile all’epoca. Come scotto di questa libertà di pensiero, ad esempio, nel 1950 Ingrao dovette subire a Bucarest, durante una riunione del Cominform, una dura critica di parte sovietica – un processo, lo chiamò lui – perché la linea del giornale era giudicata poco amica. Altri tormenti sul cammino politico e umano di Ingrao furono il rapimento Moro e la “politica della fermezza” di cui egli stesso fu, con altri, assertore (“Sconto tutti i limiti di tale asprezza… di quella nostra idea ”tutto è politica” che ha condizionato la mia generazione”); poi la caduta del Muro, la fine di un’epoca, la trasformazione del Pci in Pds, poi in Ds, la “Cosa Uno” e Due; e il distacco dal suo partito, ma non dall’ispirazione comunista; e infine la sua uscita volontaria dal Parlamento, nel 1992, con la rinuncia alla candidatura dopo 43 anni di ininterrotta presenza.
Ed è iniziata una nuova fase, nella quale da “filosofia del fare” la Politica è divenuta filosofia e basta, che lo ha portato a rifiutare totalmente la violenza e ad anteporre l’opzione del pacifismo e del disarmo ad ogni altra opzione. Dopo aver conosciuto la violenza del sovietismo e dello stalinismo, egli affronta, sposando la pace, il tema del rapporto pace-violenza dall’alto di una coscienza che conosce l’autocritica. Il salmista (Sl 84) ricorda che giustizia e pace si baceranno, e in fondo sono i due obiettivi che Ingrao ha posto come suo traguardo di uomo laico. Una laicità che non gli impedisce di dichiarare il suo amore per la pagina del Vangelo sulle Beatitudini; e di ricordare che Giovanni Paolo II è un papa che ha combattuto il marxismo, ma ha saputo sottolineare la crudeltà del capitalismo. E’ anche il papa che rigetta la dottrina della guerra preventiva, una guerra, dice Ingrao, “che santifica l’uso delle armi”.
Ma cos’è il pacifismo per Ingrao? “Non è solo una dichiarazione di fede … è un soggetto politico-sociale capace di intervenire nei punti di crisi contro la pratica della violenza e per la individuazione e la costruzione di vie pacifiche alla soluzione dei conflitti del mondo” “Dobbiamo rompere uno schema che era profondamente radicato in tutti noi. E’ lo schema della rivoluzione come assalto armato al Palazzo d’inverno”, afferma, rigettando il marxiano concetto di “violenza come levatrice della storia”. “Non c’è fine di liberazione che giustifichi il mezzo della violenza”, conclude, ribaltando la dottrina, prevalente lungo l’intero arco del Novecento, il c.d. “secolo breve”, “della identificazione tra la politica e la guerra”. “Il mio Novecento è stato terribile – commenta Ingrao – ma temo che il vostro secolo non sarà migliore del nostro: vedo un mondo dominato dall’arte collettiva dell’uccidere”. Ma “per fortuna, la politica non è morta”. E a questa funzione mallevadora della politica, una funzione nuova, come si diceva, Ingrao affida la rottura dei vaticini funesti.
Un’ultima notazione. Dopo l’esordio poetico ai Littoriali, Ingrao ha continuato a scrivere poesie, di nascosto. Il suo esordio a stampa è solo del 1986, con la raccolta Il dubbio dei vincitori, cui seguiranno L’alta febbre del fare (1997) e Variazioni serali che è del 2000.
Se così si può dire, la poesia è il lungo filo che unisce il giovane studente formiano all’uomo politico che aveva dedicato al “fare” ogni sua energia intellettuale, ma trascinando sempre nel suo bagaglio una parola: Dubbio. “Una parola che mi sono sempre portato dietro e alla quale non rinuncerei mai”: non segno di debolezza, ma stimolo alla ricerca. E non trovo affatto strano che un uomo che ha vissuto guardando all’azione, alla concretezza, anche quella più straziante e dolorosa, abbia sempre sentito bisogno di rifugiarsi nella parola pensata nell’alta sintesi che la poesia impone. E la sintesi è sempre sorella Povertà, sorella Umiltà. “Anche le sue sconfitte – ha scritto Antonio Galdo – non hanno alcuna solennità”: sono il segno dell’antico mondo contadino di Lenola, che alle sconfitte era abituato e le considerava come un inevitabile passaggio della vita, un dolore senza angosce. Anche se due dei suoi versi forti dicono: “Pensammo una torre./Scavammo nella polvere”. E’ una dichiarazione di impotenza? E’ la giustificazione di una sua sperata risposta positiva alla “lusinga del silenzio”, al fascino della contemplazione?
Sono domande che poniamo al nostro Ospite.
Nota di lettura – Questo testo è stato, a titolo di cortesia, sottoposto alla preventiva lettura di Pietro Ingrao, al quale era stato inviato via e-mail attraverso la sua collaboratrice Silvia Sgaravatti. Con lui è stato discusso nella sua abitazione romana il giorno 16 novembre 2004, dalle 10.30 alle 12. Tutti i passaggi scritti in blu sono note e modifiche apportate da Pietro Ingrao. Il mio testo attinge molto da Antonio Galdo, ma Ingrao mi ha dichiarato di non condividere alcuni passaggi del libro..
Poiché nel mio scritto mancava la parte biografica del periodo compreso tra la fuga da Roma e la clandestinità, Ingrao mi ha dettato a braccio il testo che segue. Essendo molto particolare, ho concordato con Ingrao che, pur annotandolo, non lo avrei letto con la presentazione, per dare a lui l’occasione di parlarne direttamente, come poi ha fatto.
““Si iscrisse, come era d’obbligo, alle organizzazioni giovanili fasciste, partecipò ai Littoriali, ma nel 1936, di fronte alla guerra di Spagna e, soprattutto, sotto la spinta e la sollecitazione di suoi giovani compagni, primo fra tutti Antonio Amendola, figlio di Giovanni, cominciò il suo distacco dal regime fascista, che poi divenne vera e propria cospirazione. Crebbe, così, a Roma un gruppo di giovani (oltre Amendola, il fratello Pietro, Mario Alicata, Paolo Bufalini, Antonio Giolitti) con i quali iniziò una trama cospirativa di ispirazione comunista.
Naturalmente la polizia fascista era abile e vigilante e alcuni dei giovani (Lucio Lombardo Radice e Aldo Natoli) finirono in carcere. Ingrao allora si salvò, ma alla fine del 1942 arrivò un’altra retata. Fu arrestato anche Maio Alicata, uno dei capi, e Ingrao sai salvò dalle manette fuggendo a Milano, dfove era un altro gruppo clandestino di comunisti guidato dal siciliano Salvatore Di Benedetto. Poi si trasferì sulle montagne della Sila, sempre protetto dai compagni, e dalla Calabria ritornò a Milano, dove lo colse la vicenda del 25 luglio 1943 e la caduta di Mussolini.”