20 Aprile, 2017 - 2 Commento

RECUPERATA TESTA DI TIBERIO RUBATA DALLA TORRE PANDOLFA

testa tiberioDopo 74 anni dal furto, il patrimonio culturale della provincia di Latina recupera un prezioso reperto che era stato trafugato durante l’autunno del 1943. Dopo che l’Italia ebbe firmato l’armistizio con gli Alleati, la Germania occupò in pratica il territorio non ricadente ancora sotto il c.d. Regno del Sud, facente capo al Governo che il re Vittorio Emanuele III aveva istituito dopo la fuga da Roma. I nazisti si preoccuparono di preparare un terreno sfavorevole ad eventuali sbarchi alleati e dopo aver fatto evacuare verso l’interno le popolazioni pontine, misero mano ad una devastante azione di demolizione di abitazioni e di segni di antiche culture. Tra i primi, particolarmente severe furono le distruzioni operate a Formia lungo Via Vitruvio, mentre tra i secondi si ricorda il minamento di numerose torri costiere, dal Garigliano fino al Lido di Littoria. Sulla sponda sinistra del Garigliano, in provincia di Napoli (dopo la soppressione della provincia di Caserta, avvenuta nel 1927, il fascismo attribuì a Napoli i territori fino alla sponda sinistra del fiume, e a Roma quelli sulla sponda destra), sorgeva la torre medievale di Pandolfo Capodiferro, nella quale l’allora Ministro della P.I.  Pietro Fedele, minturnese di nascita e illustre docente universitario, allestì il Museo della Civiltà aurunca, facendovi confluire numerosi reperti provenienti in particolare dalla vicina città italica di Minturnae, e in generale dai centri aurunci, fino a Sessa Aurunca. La torre venne preventivamente spogliata dai nazisti dei beni che vi erano depositati, e successivamente fatta saltare con dinamite, in quanto poteva costituire un punto di riferimento visivo dal mare. Il materiale depredato scomparve, ma negli anni Ottanta del Novecento venne casualmente rinvenuta in una soffitta di un albergo di Fiuggi una famosa iscrizione che si riteneva perduta e che vi era stata deposta dalle truppe in ritirata. Oggi il Nucleo Carabinieri per il Patrimonio Artistico ha compiuto un altro “colpo” a favore dei nostri beni culturali, identificando e riacquisendo una testa dell’imperatore Tiberio, risalente al I secolo d.C., che si trovava in un museo statunitense, dove era giunta dopo un faticoso giro tra antiquari. Dopo la sua identificazione, l’antiquario che la teneva in mostra ha restituito senza indugio la testa dell’imperatore all’Italia, tramite il Nucleo per il Patrimonio artistico dei Carabinieri, che avevano individuato il reperto. La testa è stata portata a Roma e il Ministero dovrà ora stabilirne la definitiva destinazione. Non c’è dubbio che la Provincia di Latina auspica che essa sia attribuita a Minturnae, dalla quale, forse, essa proveniva e dove, comunque, avrebbe prestigiosa collocazione.

In margine a questa bella notizia di cronaca, spiace che il comunicato dal quale questi dati vengono ripresi, sia collocata in un contesto di totale incultura storico-geografica, tanto più grave in quanto Roma dista da Minturno meno di 200 km.    Innanzitutto, nel comunicato si dice che la Torre Pandolfa fu distrutta nel 1944, sbagliando l’anno che è il 1943; inoltre si dice che la Torre era in territorio di Minturno, in provincia di Caserta, mentre: Minturno è provincia di Latina; e la Torre non si trovava in territorio di Minturno, ma nel tenimento provinciale all’epoca di Napoli. Per giornalisti che si occupano di cultura questi sono errori imperdonabili.

17 Marzo, 2017 - 1 Commento

LITTORIA O LATINA
MA E’ PROPRIO NECESSARIO?

LittoriaConfesso tutta la mia esitazione nell’affrontare questo argomento, ma poiché è molto probabile che chi mi leggerà non avrà alcuna considerazione delle mie esitazioni, mi decido. Parlerò dell’ultima iniziativa che è nata a Latina – o per mantenere un atteggiamento neutrale: nel capoluogo pontino. Parlo del referendum che si vuole fare per conoscere l’opinione di chi nel capoluogo abita, in ordine all’antico dubbio se esso debba continuare a chiamarsi col nome di Latina (che risale al 1945) o debba ritornare al nome primigenio di Littoria (che è del 1932). A mio avviso, è l’ultima cosa di cui Latina ha bisogno: quel cambiamento del nome, il cui costo nessuno ha ancora valutato (costo per cambiare tutti gli stampati, i timbri, i bolli, le tabelle segnaletiche nazionali regionali e locali, gli elenchi telefonici e statistici ecc. ecc.)- Dico come la penso io. E la penso in un modo molto semplice, direi banale: è più giusto che si ripristini una denominazione che è durata sì e no 13 anni; oppure è giusto che continui ad essere usata una denominazione che “vige” da 72 anni? E’ giusto che si debbano cambiare decine di migliaia di patenti, di carte d’identità e le abitudini di una popolazione che da decenni non ha più nulla a che fare con quella che abitò Littoria; oppure bisogna far riemergere nomi che in modo certamente inevitabile riporteranno a galla un’età politica che la storia ha distrutto e polverizzato anche sotto le macerie di una guerra dichiarata disinvoltamente, condotta senza mezzi e in maniera disastrosa dai capi politici e spesso da quelli militari, che tutta la popolazione italiana, tranne pochi nostalgici, ha rigettato, così rinnovando divisioni delle quali non sentiamo proprio il bisogno?  Oltre tutto quel nome riemergerebbe per una popolazione di Latina che è nuova e diversa, per provenienza, per costumi, per cultura, e alla quale quel nome credo non interessi più di tanto. Mi dispiace dire queste parole per il rispetto che bisogna portare per il gruppo di cittadini che si è fatto carico di questa iniziativa e per chi presiede il gruppo, un illustre generale dell’Aeronautica che ho il piacere e l’onore di conoscere, ma dovendo esprimere una opinione (sono cittadino di Latina e non di Littoria) la esprimerei anche nell’urna referendaria. Ma credo che avremmo potuto farne davvero a meno.   

10 Marzo, 2017 - Nessun Commento

I PIATTI ANTICHI DI GAETA NELLA RISCOPERTA DI BRUNO DI CIACCIO

la cucina di gaetaC’era una volta uno dei grandi Signori della Gaeta dell’avanzato secondo dopoguerra. Non era “signore” per nobiltà di lombi, ma per nobiltà di intelletto e di buoni gusti. Si chiamava Pasquale Di Ciaccio, amava la sua terra come forse oggi non la si ama più; e amava tutti coloro che amano la propria terra, col rispetto dovuto, senza polemiche di campanile ed anzi aiutando le altrui ricerche locali. Pasquale Di Ciaccio era, a sua volta, studioso ma ancor più “raccontatore” del suo Paese, Gaeta, con una connotazione speciale: lui amava ricordare non solo i grandi Eventi di cui è ricca la storia di Gaeta, e non solo le splendide cose che la cultura di tutto il sud provincia di Latina e il nord della provincia di Caserta hanno concentrato in Gaeta quando si svilupparono le invasioni saracene che avrebbero annientato Formia fino a farle perdere lo stesso nome. In quegli anni tragici, le popolazioni vicine e meno vicine si raccoglievano e difendevano dietro le mura di Gaeta, in cui portarono ricchezze e cultura da sottrarre alle predazioni. Pasquale Di Ciaccio amava raccontare soprattutto il modo di vivere dei suoi conterranei, il senso della vita comune, delle piccole e grandi abitudini, del modo di vivere dei grandi e meno grandi livelli della società gaetana. Sono personalmente legato ad un libro che pubblicò quando era ancora pieno di forze e di sentimenti: si chiama “La luce blu” e ricorda quel mondo un po’ chiuso di una Gaeta ancora isolata, perché la Flacca non l’aveva ancora aperta a tutti; racconta con grande delicatezza, con grande sensibilità e in punta di penna la vita di ogni giorno, di S. Erasmo e di via Indipendenza, del Borgo e della Piaja.

Questo come introduzione ad un altro Di Ciaccio, che si chiama Bruno e che, con disperazione del papà, non amava le stesse cose che amava Pasquale, ma preferiva la vita più reale e concreta che doveva ancora vivere, un po’ distaccato dai sogni di Pasquale. Bruno Di Ciaccio, figlio di Pasquale, si è preso una rivincita ora che, da pensionato, avendo vissuto una vita di grande dignità e soddisfazione, può dedicarsi anche lui ad esplorare il mondo al quale si riferiva il padre, quel mondo locale fatto di cose piccole e grandi e ben connotate. E si è rivolto ad un campo che coniuga l’amore per il natìo loco alla concretezza e al realismo della vita vissuta tutti i giorni. E’ nato, così, un bel libro che colma una buona parte di lacune nel settore della gastronomia del Golfo di Gaeta (ma Bruno Di Ciaccio la chiama orgogliosamente “La cucina di Gaeta”). E’ un libro che si presenta molto bene dal punto di vista editoriale e che appare subito elegante e pratico nel descrivere le ricette di un tempo che non è passato, perché viene riscoperto di continuo nel fiorire di iniziative che indagano la buona tavola anche antica. Gaeta un tempo era la città dei militari e dei “signori” che abitavano la città medievale; e la città dei pescatori e dei contadini che non potevano abitare dentro le mura, perché i loro orari di lavoro (la sera per la pesca, l’alba per coltivare i fazzoletti collinari che circondano Gaeta dalle sue colline), in quanto le porte della piazzaforte venivano chiuse quando suonava l’Avemaria e riaperte quando il sole era già sorto: quei pescatori e quei contadini, dicevo, scelsero di creare le loro case fuori delle mura. E piano piano nacque un rione (assurto anche alla dignità di Comune per una trentina di anni, col nome di Elena, prima di essere riaggregato a Gaeta). Il rione era chiamato semplicemente la Spiaggia o la Piaja e crebbe attorno ad un rettilineo che oggi è via Indipendenza, a ridosso del mare percorso un tempo da corso Attico. Qui nacque la nuova cucina gaetana, cucina povera o meglio ancora, cucina semplice, fatta dei prodotti della terra che si sottraevano al mercato e dei pesci che non venivano acquistati dai signori. E qui nacque la tiella, una pizza rustica che oggi è emblema gastronomico di Gaeta, così come nacquero una serie di pietanze “povere” che oggi gli chef riscoprono e i turisti richiedono sui menu a pagamento. La rivincita di una società antica su quella moderna che deve servirsene. Bruno Di Ciaccio ci ha così regalato un libro che contiene un’apertura che spiega come questo libro sia nato; che rievoca le atmosfere di un mondo riemerso dal passato; e che illustra, fotograficamente e nel dettaglio delle componenti, degli ingredienti e delle modalità di cottura una serie di piatti gustosi, appetitosi, sani, genuini e soprattutto moderni, nel senso più pieno di questa parola. Non occorre elogiare questo libro: chi scrive si è divertito a leggerlo e si divertirà di più quando riuscirà a tradurlo in portate da gustare e far gustare. E’ solo un libro da avere in casa.

Pagine:«1...71727374757677...143»