7 Giugno, 2019 - Nessun Commento

CHIUDE DOPO 60 ANNI
LA SCUOLA NATO DI LATINA

FOTO NATO LATINALa Scuola di Telecomunicazioni della Nato di Latina ha smesso di operare. E’ stata trasferita in Portogallo. Aveva sede a ridosso di un borgo di Latina, Borgo Piave, e vi è rimasta per sessanta anni. Latina perde un comando militare importante, legato alle telecomunicazioni, ossia alla tecnica, ma perde anche una non piccola comunità fatta di militari, di collaboratori civili, di famiglie di militari che venivano a frequentare e ad arricchire la città di un pot-pourri di persone giovani e motivate, alle quali offriva la sua ospitalità, le sue scuole per le migliaia di bambini che si sono succeduti tra i banchi, i bei luoghi che circondano Latina, il mare, il lago di Fogliano, Ninfa, la storia della collina. Decine di alti ufficiali si sono succeduti a guidare la Scuola di telecomunicazioni ed ognuno di essi ha lasciato una positiva traccia del suo passaggio, sia nelle cose che nei rapporti cordiali che legavano la città ai suoi Ospiti. Sono stato più di una volta io stesso ospite della Scuola, anche quando si chiamava DAT, Direzione Aerea Territoriale. Ho conosciuto qualche Ufficiale comandante, ho sempre riportato un forte senso di empatia. Ho servito a suo tempo come Aviere Governo Leva – così si chiamavano i soldati semplici dell’Aeronautica militare. benché fossi laureato. Mi interessava quel tipo di esperienza, piuttosto che sperimentare d a allievo ufficiale di complemento il comando di qualche ufficio secondario. Ho servito presso l’Aeroporto Enrico Comani, anch’esso Scuola, ma di volo ad elica, che ha formato migliaia di allievi piloti ti numerose Nazioni amiche, nella parte essenziale del loro percorso formativo, quando dovevano imparare a padroneggiare i comandi dei Beechcraft e poi dei Piaggio che costituivano la dotazione della Scuola quando io mi trovavo là. E’ stata una esperienza durata poco per mie ragioni familiari, ma ho potuto godere a pieno di essa, avendo percorso tutti i compiti che il Comando richiedeva da un Aviere. Incluso il servizio all’alto Ufficiale che comandava il mio settore. In quell’ambiente, diverso dalla Scuola Nato, si viveva una sorta di campanilismo “buono” con la stessa Scuola Nato. Noi – anche io che ero un “piombino”, ossia destinato a restare a terra e non a volare – ci sentivamo più determinanti nello scacchiere militare. Noi facevamo volare gli aerei, e non sapevamo esattamente a cosa servisse una scuola telecomunicazioni. L’ho capito dopo quando, smessa la divisa, mi sono dovuto occupare da giornalista di quella piccola ma perfetta struttura.

Di essa qui voglio parlare per due ragioni. La prima è che si sapeva da anni che la Scuola sarebbe stata dismessa, eppure nessuno, dico nessuno tra i politici e gli amministratori della città, si è mai occupato e preoccupato di prevenire e di scongiurarne la chiusura. Si può dire: meglio per la città che sia stato allontanato un possibile obiettivo militare. Ci accorgevamo che c’era un obiettivo quando l’aria si surriscaldava, prima durante la “guerra fredda”, poi con la guerra nei Balcani. Eppure dalla Scuola NATO non è mai trapelato un senso di preoccupazione che allarmasse la Città. Erano dei perfetti uomini responsabili che conoscevano gli effetti dell’allarmismo. Era una struttura fatta di uomini, di famiglie, di movimento di denaro. E questa è la seconda ragione per cui ne parlo. In sessanta anni – tanto è durata la permanenza della Scuola NATO – decine di migliaia di persone hanno contribuito a sostenere l’economia cittadina. Qualcuno ha provato a fare due conti, e ne è venuto fuori che lo spostamento in Portogallo toglierà a Latina un movimento di denaro in termini di spese fatte in città prossimo ai 5,5 miliardi di euro. Una bella sommetta.

Eppure non abbiamo letto una sola richiesta di informazioni, una interrogazione, una rivendicazione, una petizione che scongiurasse la chiusura. Io non so perché, perché nessuno ne ha mai voluto parlare. Segreto militare? E’ troppo poco, considerato che la Scuola appariva indicata su tante tabelle stradali, e non operava in segreto. Operava alla luce del sole. Ora non resta che farne l’epitaffio. Ed è un peccato. La Città è oggi un po’ più povera sotto diversi aspetti. Soprattutto umani.

 

12 Maggio, 2019 - 2 Commento

LA SCOMPARSA DI MARCELLA ALBERGATRICE DAL SORRISO DOLCE

Cosmo e Marcella 2
Marcella Nicolussi aveva conosciuto il mare di Sperlonga quando, ancora giovane, aveva iniziato la sua professione di guida turistica ed accompagnava i clienti dell’Agenzia per la quale lavorava facendo loro scoprire le meraviglie della nostra riviera. Io l’avevo conosciuta in questo suo impegno professionale, ed ero compiaciuto per il fatto che veniva dal Trentino, che è la terra di origine di mio Padre; per il fatto che dimostrava grande cortesia, unita a grande efficienza sul lavoro; per il fatto che portava clienti dalle nostre parti, quando nel 1969 mi inventai una sigla che ha fatto fortuna, La Riviera di Ulisse. Allora lavoravo anche io nel turismo. Conobbi Marcella e Marcella conobbe Cosmo Di Mille, un capitano di lungo corso originario di Gaeta, che aveva deciso di lasciare il mare navigato per vivere in faccia al mare di Sperlonga in un albergo che con mille difficoltà e un entusiasmo straordinario stava mettendo in piedi, in località Fiorelle. Lo chiamò, difatti, Park Hotel Fiorelle. Cosmo e Marcella trasformarono il loro rapporto professionale tra guida e albergatore in un rapporto d’amore forte e duraturo:  è durato più di 50 anni e ha consentito loro di far crescere la loro piccola ma stimata azienda dell’ospitalità e di sviluppare un affetto e una stima reciproca che li ha tenuti saldamente uniti per tutto questo tempo. Avevano entrambi varcato da qualche anno la soglia dei 90, sempre in perfetta efficienza e sempre dedicandosi l’uno all’altra ed insieme al loro albergo. Ora Marcella ha lasciato Cosmo e il Park Hotel Fiorelle, accompagnata dall’affetto di tante persone che l’hanno conosciuta con quel sorriso dolce e timido che le illuminava sempre il volto. Io di lei ricordo quel sorriso, ricordo la sua delicata gentilezza, ricordo la sua capacità manageriale e il suo grande rispetto per quello che rappresentavo, cioè chi doveva sorvegliare che la loro azienda filasse secondo norma. Ma non c’era davvero bisogno di sorvegliare nulla. Sapevano essi stessi sorvegliare quello che facevano con efficacia, rigore e grande spirito di ospitalità, Ciao Marcella, ti ricorderemo.
4 Maggio, 2019 - Nessun Commento

IL TERZO LIBRO DI BRUNO DI CIACCIO: LA CUCINA AI TEMPI DEL PAPA-RE

libro di ciaccioDopo i due volumi dedicati a “La cucina di Gaeta” e a “La cucina al tempo dei Borboni”, Bruno Di Ciaccio ha centrato il terzo obiettivo della sua gustosa fatica attraverso la gastronomia dei tempi e dei luoghi. l’Editore Cuzzolin ha, difatti, pubblicato “Quinto quarto e ingegno. La cucina della Roma papalina”, scostandosi dal suo naturale habitat culinario-storico rappresentato dalla influenza della Campania. La traccia che ha seguito è quella ormai ottimamente collaudata della indagine volta a ricordare e riscoprire le ricette della tradizione regionale, accompagnandole con gustosissime “chicche” documentarie fatte di antichi giornali che parlano di cucina, testi classici, come le rime di Giuseppe Gioacchino Belli o come il De Re Coquinaria di Apicio; e meno noti, che ha scoperto frequentando le sue fonti letterarie, di cui fanno parte anche le immagini direi inevitabili disegnate da Bartolomeo Pinelli, che costituiscono il colorito contorno di ogni pubblicazione dedicata al Sette-Ottocento della Roma papalina. L’altro marchio di Di Ciaccio fabbrica è la descrizione precisa delle singole ricette, talune illustrate da fotografie fornitegli da illustri chef che ancora le preparano per i loro clienti, dall’elenco degli ingredienti necessari od opportuni, e dal modo con cui si cucinano per trarne il maggior gusto possibile. E la cosa più gradevole è che accanto alle tradizionalissime ricette dei Rigatoni alla pajata o degli Spaghetti all’amatriciana, Bruno Di Ciaccio riporta alla luce ricette apparentemente meno pregiate, che ha saputo riscoprire traendole dal fondo della non-memoria in cui rischiavano di perdersi. Un libro che vale davvero la pena tenere a portata di fornello.

Se l’area esplorata è quella romano-laziale, Di Ciaccio non esita a fare qualche contaminazione di buon gusto con qualche ricetta umbra o toscana che ha avuto buoni assaggiatori nel Lazio. Mi sento di dire senza il timore di essere considerato un piaggiatore, che Bruno Di Ciaccio ha creato non solo un altro bel libro, ma ha offerto ai suoi lettori l’occasione per rinverdire antiche tradizioni che, pur note, rischiano di restare fuori dalle tavole quotidiane.

 

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