14 Febbraio, 2013 - Nessun Commento

LEONE GINZBURG E IL MANIFESTO DI VENTOTENE

Il Manifesto di Ventotene è, ormai, un documento che, almeno nel titolo, è noto a molti; e, comunque, dovrebbe costituire il fondamento teorico dell’europeismo, la sua pietra angolare, il mattone primordiale. Nato con il nome di Manifesto per un’Europa libera e unita, nel confino politico dell’isola pontina di Ventotene, scritto e pensato tra la fine del 1941 e il 1942 da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, nascondendo il manoscritto alle occhiute perquisizioni della Milizia fascista, uscì dall’isola in modo romanzesco. Trascritto in grafia minutissima su cartine per le sigarette poi inserite in un piccolo cilindro a sua volta nascosto in un dolce, fu trasferito da Ursula Hirschmann, moglie di Eugenio Colorni, il terzo dei pensatori del Manifesto, e diffuso a Roma.
Fin qui i fatti erano noti, magari conditi da qualche dettaglio. Ma un articolo di Domenico Scarpa (Il Sole 24 ore – Il Domenicale del 3 febbraio 2013, pag. 31) fornisce un ulteriore contributo molto importante per la genesi del documento, aggiungendo ai suoi elaboratori il nome di Leone Ginzburg.

La cosa straordinaria è che la notizia viene da una lettera scritta da Spinelli – ormai liberato dopo anni di carcere e di confino, dopo la caduta del fascismo – il 20 novembre 1944 e firmata con lo pseudonimo di Pantagruele. Spinelli scrive, difatti, che il primo testo del Manifesto “ebbe le cure redazionali di Leone Ginzburg” e che, una volta portato a Roma, vi venne per la prima volta in assoluto stampato in 3000 copie, sempre a cura di Ginzburg e di Eugenio Colorni. Di questa edizione si sapeva quasi nulla, o comunque è stata sempre trascurata, quasi che il Manifesto fosse una sorta di fantasma intellettuale, destinato a prendere la corporeità dei fogli solo molti anni dopo la fine della guerra. E, invece, l’idea di Europa cominciò a circolare quando l’Europa era ancora lacerata dalla guerra e dalla morte, segno incrollabile di una tesi che andava ben al di là dei fatti brutali che il continente aveva conosciuto nei suoi territori.

14 Febbraio, 2013 - Nessun Commento

APRILIA HA SUPERATO I 72 MILA ABITANTI

Aprilia prosegue a passi da gigante nella sua strada di crescita: al 31 dicembre 2012 è stato censito il suo cittadino n. 72.702, come annuncia il periodico Il Giornale del Lazio, diretto da Gianfranco Compagno. Dai quasi 2000 degli anni della guerra, i residenti sono aumentati ad un ritmo tale da fare di Aprilia la terza città del Lazio, dopo Roma e Latina. Una crescita che non è stata sicuramente tranquilla, perché è stata accompagnata da difficoltà di vario genere, ma la Città ha saputo reggere agli inevitabili squilibri urbanistici, sociali e organizzativi, e sta cercando nella sua nuova dimensione anche una diversa capacità di organizzazione sociale, come dimostrano le diverse iniziative di carattere culturale , e la ricerca di interventi sul territorio capaci di disegnare nuove linee di orientamento, anziché cedere, com’è accaduto spesso

31 Gennaio, 2013 - Nessun Commento

I SETTE MARINAI DI GAETA
CHE RESERO OMAGGIO NEL 1945
ALLA TOMBA DI MAFALDA DI SAVOIA

Mafalda di Savoia

Un libro del giornalista di “Repubblica” Marco Ansaldo, recentemente èdito (Il falsario italiano di Schinlder. I segreti dell’ultimo archivio nazista, Rizzoli) dà conto di una esplorazione nel mega archivio nazista allestito a Bad Arolsen (Assia, Germania), e che è la sintesi di tutte le cose orripilanti nate dalla follìa nazista. E’ un libro che si legge bene, anche se prende alla gola, e che non ha nessuno dei difetti che qualche storico di professione gli addebita, per il semplice fatto che il taglio cui è ispirato è informativo. Ed è efficace. Ma non intendo qui spiegare perché sono dalla parte di Marco Ansaldo e del suo libro, e non delle critiche che non comprendo. Lo cito semplicemente perché tra le tante storie in esso contenute c’è anche quella della misera fine di Mafalda di Savoia, secondogenita figlia di re Vittorio Emanuele III, andata sposa a Filippo d’Assia, e, perciò, divenuta, ahimé, cittadina tedesca. Rapita (letteralmente) a Roma, sia pure con un sotterfugio, finì a Buchenwald, dove morì in seguito ad un intervento chirurgico praticatole per amputarle un braccio ferito nel corso di un bombardamento aereo sul campo di sterminio. Mafalda fu poi sepolta nel cimitero di Weinar. E qui si spiega questa notizia. Dopo la liberazione del campo di Buchenwald da parte delle forze alleate, tra gli internati furono riconsegnati alla libertà anche sette marinai di Gaeta. Ed essi si resero protagonisti di una piccola, ma significativa azione d’amore che qui si vuole ricordare.

Intanto i loro cognomi: Magnani, Mitrano, Colaruotolo, Pasciuto, Avallone, Fusco, Ruggeri. Essi, venuti a conoscenza che la loro compagna di campo di concentramento era morta, in un gesto di umana pietà verso la sua sfortunata vicenda, vollero recarsi nel cimitero di Weimar e, individuata la tomba, onorare la memoria della sfortunata principessa apponendo un loro ricordo: una croce intagliata nel legno di faggio (Buchenwald significa, appunto, bosco di faggi) ed una lapide di marmo che reca l’epigrafe: A Mafalda di Savoia i marinai della città di Gaeta…” e i loro sette nomi. Essi commissionarono croce e lapide ad artigiani tedeschi, pagandoli con forme di pane, visto che i loro “fornitori” non vollero, in cambio, gli ormai inutili marchi tedeschi. Quel segno di un affetto che superava anche le soglie tragiche di un tragico fine guerra e fine delle stragi naziste, ci sono ancora oggi, perché hanno seguito la salma che la Famiglia d’Assia ha deposto nel cimitero del borgo di Cronberg.