6 Aprile, 2013 - Nessun Commento

BREVI NOTE SULLA VITA
DI ALDO MANUZIO BASSIANESE
Parte seconda

L'ANCORA SECCA DI ALDO MANUZIO

Nel 1501 Aldo Manuzio iniziò a stampare le note e splendide edizioni in latino, tra esse quelle dedicate alle opere di Virgilio e Dante, garantendo filologicamente i testi grazie alla collaborazione di uomini dotti come Pietro Bembo, Angelo Poliziano, Barbaro, Valla, Musuro, Gert Geerstsz. Le sue opere, in effetti, segnarono il recupero definitivo di autori come Aristotele, Aristofane, Euclide, Archimede, Tolomeo, Petrarca. Particolare importanza ha l’Hypnerotomachia Poliphili di F.Colonna, con xilografie forse del Mantegna. Scrisse anche due grammatiche, quella latina (Rudimenta gramaticae latinae linguae) e quella greca, quest’ultima uscita postuma. Il primo volume dell’opera omnia di Aristotele fu l’ Organo o Logica, del 1495, èdito in greco, per cui ad Aldo è attribuita “la gloria di essere stato il primo inventore di far gettare in copia i caratteri Greci, ed in quelli stampare delle Opere intere come fece”. In definitiva, fra il 1495 e il 1515 Aldo pubblicò 130 opere in italiano, latino e greco. Nella sua professione, egli tenne costantemente presenti tre aspetti: la bellezza della composizione, il rigore filologico dei testi, la capacità di diffusione dei libri che pubblicava, per garantirsi di che sopravvivere dal punto di vista economico ed assicurare, contestualmente, che la maggior circolazione del libro producesse anche più diffusa cultura. Ai caratteri, che, come s’è detto, furono la prima straordinaria novità presto adottata, affiancò altre innovazioni: curò la grazia estetica della pagina a stampa, attraverso figure e fregi che la ornavano e la impreziosivano; definì nuovi canoni di uso della punteggiatura (fece scomparire il punto mobile, e stabilì che il punto fosse solo il segno di chiusura del periodo; regolamentò l’uso della virgola, del punto e virgola, di apostrofo e accento); curò la spaziatura e l’allineamento dei caratteri nella pagina facendo incidere due serie di caratteri (soprattutto per le lettere a, e, m, n, t), usandole a seconda che fossero nel rigo o a fine rigo, precedendo così la “giustificazione”, ossia la compattezza di una pagina che oggi il computer fa automaticamente, ma che allora si curava a mano. Geniale fu anche la sua decisione di stampare in italiano, in latino ed anche in greco, lingua che imparò così bene da poterla parlare e scrivere correntemente. Venezia, del resto, era piena di greci fuggiti alla presenza turca in patria, ed era ricca di opere preziose in lingua greca: e Aldo amò quella lingua al punto che nell’Academia Aldina si doveva parlare in greco, pena il pagamento di una multa da devolvere a banchetti sodali. Manuzio provò anche a stampare in ebraico, ed in questa impresa si associò uno studioso che gli garantiva la lettura e la correzione dei testi, Gershom Soncino, ebreo, discendente di stampatori, l’uomo che poteva risolvergli, come ricorda Giulio Busi, il problema di scrivere e correggere in ebraico. Il sodalizio, però, si ruppe presto, perché alla edizione della Introductio perbrevis (1501) alla lingua ebraica, Soncino accusò Aldo di essersi impossessato del suo lavoro e lo lasciò, insieme a Francesco Griffi da Bologna, il grande disegnatore e intagliatore dei caratteri corsivi. Della sua esperienza di stampatore in ebraico rimasero soltanto il suo desiderio insoddisfatto ed un foglio, un solo foglio, del tentativo di stampare la Bibbia su tre colonne (latino, greco ed ebraico), opera che non andò avanti. Il foglio di prova è conservato nella Biblioteca nazionale di Parigi. Altra innovazione aldina fu la stampa del primo catalogo delle proprie edizioni greche (1498), che poi aggiornò in due successive edizioni. Il segno distintivo delle sue opere, ossia la sua marca tipografica, o impresa, che adottò raffigurava un’ancora (ossia la forza, la stabilità, la fermezza) attorno alla quale si avvolge un delfino (simbolo di eleganza, di rapidità e di intelligenza), con una scritta che riassumeva i diversi simboli: Festina lente, ossia, affrettati con calma. La famiglia dei Pio di Carpi gli dette, poi, anche il diritto di fregiare l’àncora aldina con un’aquila rossa in campo d’argento col nome Pio (forse nel 1504). Aldo portò a compimento tutte queste cose con una genialità e una precisione che gli fu riconosciuta subito: dal suocero (lui stesso stampatore, come si è detto), dai suoi colleghi, dagli uomini di cultura del tempo, che si strinsero attorno a lui assicurandogli le migliori lezioni filologiche delle opere che pubblicava; e dai suoi lettori, perché le sue edizioni divennero all’epoca quel che sarebbero diventati (fatte le necessarie differenze) gli Oscar Mondadori negli anni Cinquanta. Fu severo con se stesso e severo con gli altri, sostenuto da una profonda convinzione circa la funzione anche educatrice, oltre che convertitrice del cattolicesimo. Si impegnò, difatti, in una politica che, come scrive Vittore Branca, fu “non solo culturale, ma civile e di respiro universale; queste sue doti attingevano ad una precisa formazione spirituale, essendo egli anche intransigente uomo di morale cattolica: dei giovani diceva che “se dovessi scegliere, preferirei che non sapessero nulla e fossero virtuosi piuttosto che conoscessero tutto e fossero malvagi”. Ma non fu certo oscurantista, moderne essendo le motivazioni, se è vero che nella prefazione agli Erotemata del Lascaris (1495) dichiara: “Ho deciso di spendere tutta la mia vita a pro’ dell’uomo… sollecitato da un amore incredibile verso l’uomo” [“nihil me magis desiderare, quam prodesse hominibus…”], concludendo che “se si maneggiassero più libri che armi non si vedrebbe tante stragi e tanti misfatti”. In una lettera a stampa indirizzata agli adolescenti, diceva: “Dabo igitur operam, ut quantum in me est, sempre prosim nam etsi quietam, ac tranquillam agere vitam possumus, negociosam tamen eligimus, & plena laboribus. Natus est enim homo, non ad voluptates, bono, & docto viro indignas, sed ad laborem, & ad agendum sempre aliquid viro dignum” . … “Nam (ut inquit Cato) vita hominis prope uti ferrum est; ferrum si exerceas conteritur, si non excerceas, tamen rubino interficit…”. Alla sua morte il 6 febbraio 1515 (l’orazione funebre fu tenuta da Raffaele Regio nella chiesa di San Parernian), lo storico senatore veneziano Marin Senudo lo definì “umanista”, impiegando, scrive Vittore Branca, per la prima volta questo termine nel senso di “chi si era generosamente votato a promuovere e rafforzare la dignità della persona umana”. (Fine).

Note. La citazione di Giiulio Busi è da Il piccolo giudeo di Manuzio (Il Sole 24 Ore Domenica, 4 febbr. 2007, pag. 31), quella di Vittore Branca è da Manuzio ci ha messi in riga. La lezione tipografica, umana e spirituale del più grande stampatore di tutti i tempi (Il Sole 24 Ore, Domenica 26 luglio 1998, pag. 28).

 

 

 

 

2 Aprile, 2013 - Nessun Commento

BREVI NOTE SU ALDO MANUZIO DA BASSIANO

Sull’ultimo suo libro, Roberto Calasso (L’impronta dell’Editore, Adelphi) ha dedicato il capitolo finale alla figura del grande tipografo Aldo Manuzio il Vecchio. Del quale si parla in questo Blog per4 ricordare chi fu e, soprattutto, cher nacque a Bassiano, un ridente centrol medievale dell’antiappennino lepino, in provincia di Latina.  

Parte prima

Sarebbe difficile, come pure accade, continuare a nutrire dubbi sulla patria di origine di Aldo Manuzio, che è Bassiano, nella odierna provincia di Latina: chi oppone ad una nascita “provinciale” quella che gli deriverebbe dall’ appellativo di Romanus con il quale il grande tipografo-umanista è più generalmente, noto tralascia alcuni fatti, e tra essi una certezza che viene dallo stesso Manuzio. Nel suo libro Vita di Aldo Manuzio incisorfe restauratore, ecc., in Venezia, 1759, scrive Domenico Maria Manni, che la “patria sua naturale da i più creduta fu l’alma Roma” (da cui il Romanus). Ma “la vera patria, che è quella, ov’egli respirò il primo aere” fu “una Terra posta nel Lazio, oggi Campagna di Roma, in non grande distanza da Velletri (“duodecim milliarium” si precisa), e dalla Palude Pontina”, e da “quel Luogo, sul quale la Prosapia dei Gaetani tenea giurisdizione, e comando”, ossia Sermoneta (1), “oppidum amplum, & munium Italiae in ditizione Pontificia, & in Campania Romana”. Questo lo attestava quell’altro Aldo Manuzio, figlio di Paolo Manuzio, figlio del primo Aldo che, per distinguersi dal grande nonno (“il Vecchio”) si chiamò “il Giovane”. Essendo Aldo il Giovane veneziano di nascita e di formazione, avrebbe, magari, potuto far apparire il suo avo maggiormente nobilitato da una nascita romana che da una “di Campagna”. A togliere ogni residuo dubbio, poi, sta il fatto che Aldo si firmò nelle prime sue edizioni col nome greco di Aldou Manoukiou Basianeos,  o con quello latino di Aldus Manutius (2) Bassianas. In effetti, non Serm on eta, ma Bassiano: Sermoneta, capoluogo dell feudo dei Caetani, sembrava più importante della vicinissima Bassiano, che è la vera patria. Aldo abbandonò l’attributo toponomastico preferendo il più identificabile Romanus, anche perché Bassiano “è nel distretto di Roma”, come diligentemente recita la fonte citata. Risolto questo dubbio anagrafico, quasi tutto il resto è certezza, perché, essendo Aldo Manuzio divenuto uno dei più grandi costruttori di quell’ “umanesimo” che contrassegna il periodo in cui egli visse, la sua vita è nota proprio come quella di un uomo pubblico dell’epoca, in quanto seguita e annotata. Le eccezioni riguardano l’anno della sua nascita, che qualcuno pone nel 1447, qualche altro nel 1449; e la  formazione dei suoi primi anni. La sua morte, invece, ha una data esatta: cadde il 6 febbraio 1515,  in quella che era divenuta la sua Venezia, anche se volle essere sepolto a Carpi, e diremo perché.

Tra le due date le informazioni sono le seguenti: ricevette la prima istruzione, ancora bambino, a Roma, pur non avendo avuto, secondo il Manni,  grandi maestri, e per di più fu costretto a studiare su una grammatica latina “intralciatissima in versi barbari, e rozzi”, che testimoniano “la deplorabil barbarie de’ tempi d’’allora, Grammatica adorata per lungo tempo nelle infelici Scuole, e questa obbligavalo il Maestro ad impararla lunghissima, com’ell’è, a mente con sommo dispendio di fatica, di tempo, e con quel profitto, che ognuno può immaginare” A Ferrara, dove successivamente si trasferì, iniziò uno studio serio delle lingue classiche, giovandosi della grande temperie culturale locale e della possibilità di leggere gli autori classici nei rari volumi in folio che circolavano. Fu un incontro che avrebbe segnato le sorti sue personali e quelle della cultura mondiale, contemporanea e successiva. Nel 1482 si trova a Mirandola, dove stringe amicizia con Giovanni Pico, più giovane di lui di 13 anni, che lo apprezzava al punto da affidargli il compito di tutore-maestro di due suoi nipoti, i nobili Alberto e Lionello Pio, dei principi di Carpi. L’impegno con cui Aldo assolse il suo incarico fu così serio ed efficace che il principe Alberto Pio gli attribuì il diritto di fregiarsi del nome della sua famiglia, Pio, per cui il Bassianese è conosciuto col nome di Aldo e con i due cognomi di Pio (attribuito) e di Manuzio (originale). Lo stesso Alberto Pio divenne, in seguito, finanziatore delle prime edizioni aldine, e rimase tanto affezionato al suo maestro da donargli alcune terre presso Carpi, e quel legame di stima e di affetto spiega perché Aldo volle essere sepolto nella città emiliana. In questo ambiente Aldo ebbe modo di conoscere anche le nuove edizioni provenienti dalla stamperia di Gutemberg, e a tal punto se ne innamorò da cambiare lo scopo della propria vita.  Nel 1490 Manuzio completa il ciclo dei suoi trasferimenti (Bassiano, Roma, Ferrara, forse Ravenna, Carpi) trasferendosi a Venezia, dove esplose il suo genio. Ma l’idea che si era ormai insediata stabilmente nella mente e nel cuore di Aldo dovette attendere cinque anni per essere concretizzata. Venezia era, all’epoca, una culla della cultura, italiana, balcanica e del vicino Oriente, ma soprattutto era la culla della stampa: due dei suoi quartieri, San Zulian e San Paternian, erano quartieri di stampatori, e i tipografi di Venezia produssero, dalla seconda metà del 400 al ‘500, larga parte della intera produzione libraria europea, sfornando migliaia di edizioni. A questo proposito, un brevissimo cenno di storia della stampa consente di comprendere anche l’importanza della “conversione” di Manuzio. La prima stampa a caratteri mobili, ossia con caratteri scomponibili assemblati su una linea e riutilizzabili, fu usata dal germanico Giovanni Gensfleisch, molto più noto col nome di Gutemberg, che a Magonza, nel 1448, stampò, in società con un altro stampatore, il Fust, la celebre Bibbia latina a 42 righe. I caratteri mobili, rendendo obsoleto il procedimento xilografico (stampa da una lastra incisa su legno), aprirono la prima strada ad una rivoluzione nella editoria, in quanto consentivano di tirare più copie, a prezzi, quindi, progressivamente ridotti. I prezzi, tuttavia, restavano elevati sia per il numero molto basso di esemplari da tirare, sia per il grande formato in cui essi venivano impressi. L’edizione che si usava abitualmente, infatti, era l’ in folio, nella quale il foglio di carta era piegato una sola volta e consentiva, perciò, la stampa di quattro facciate o pagine. Ne veniva fuori un libro ingombrante, che aveva solitamente una grandezza di cm. 30,49 x 38,1, ed era, dunque, anche pesante, non maneggevole e tale da obbligare il lettore ad avvalersi di appositi sostegni o leggìi. Per ovviare a questo primo ostacolo, si ricorse a formati più piccoli: l’ in quarto, a due piegature per otto facciate; in ottavo, a tre piegature  per complessive 16 facciate. Sarebbero, poi, venuti formati ancora più ridotti (in sedicesimo, quattro piegature  per 32 facciate, in 32°, in 64° ecc.). Aldo comprese che se voleva ottenere il risultato di far crescere la diffusione del libro, e con esso la cultura, senza trascurare l’aspetto commerciale dell’operazione, occorreva sfruttare la mobilità del carattere e sviluppare l’idea di Gutemberg attraverso l’introduzione di alcune geniali novità. Le principali furono, sostanzialmente, due: l’aver puntato alla diffusione privilegiando il formato in ottavo (il libro misurava press’a poco cm. 20 x 28, ed era, perciò, molto maneggevole, e leggibile senza servitù di leggìo, e oltretutto costava di meno); e innovando la scrittura.

I caratteri “aldini

Questa è una parte di straordinario interesse, perché ad Aldo si deve la creazione e l’utilizzo di caratteri del tutto nuovi, capaci di riprodurre da vicino la scrittura di un amanuense. Su sue direttive, glieli incise splendidamente Francesco Griffi da Bologna: sono i famosissimi caratteri chiamati via via “minuto italico”, “italico”, “cancelleresco”, poi corsivo. Insomma, sono quei caratteri che ancora oggi si chiamano “aldini”. Altri caratteri, come il maiuscolo per il corsivo, Aldo raccomandò al suocero che fossero incisi da Giulio Campagnoli. Manuzio usò per la prima volta quei nuovi caratteri nel 1502, quando stampò una splendida  edizione della Commedia di Dante, e il Senato veneziano decise di accordargli il privilegio del “diritto d’autore”, ossia del diritto ad usare in esclusiva quei caratteri, per un decennio. Il privilegio fu poi iterato anche da alcuni pontefici. Riprendiamo il percorso biografico: nel 1494 Aldo aprì la prima tipografia in contrada Sant’Agostin, e alla fine dello stesso anno pubblicò la sua prima opera, il Museo, cui fece seguire subito la Galeomyomachia. Nei quattro anni che precedettero la stampa del primo volume dopo il suo arrivo a Venezia,  studiò il mestiere in tutti i sensi ed intessé una serie di importanti relazioni che avrebbero “costruito” il Manuzio degli anni successivi: collazionò e corresse i codici dei maggiori autori antichi, attivò ed intrattenne rapporti con dotti in e fuori Venezia, e questa grande tessitura confluì, poi, nella Academia Aldina, o com’egli la chiamava, Neacademia, che volle istituire per istituzionalizzare, in qualche modo, quelle relazioni. All’Academia, difatti, aderirono i maggiori nomi della cultura dell’epoca (un nome per tutti, è quello di Erasmo da Rotterdam). Le regole accademiche furono dettate in greco da Scipione Forteguerri da Pistoia, alias Nicolò Carteromaco. Primi presidenti furono lo stesso Manuzio e un greco, Giovanni Gregoropulos. Nel 1498 Aldo era un editore affermato, e, soprattutto, era un uomo che impegnava tutte le sue energie in quel che faceva, tanto che il Doni  scrisse che “soleva Messer Aldo non perdonare né a spesa, né a fatica d’aver buonissimi testi antichi… ed appresso ragunando uomini eruditissimi, col giudizio loro riformò, ed emendò infiniti buoni Autori Latini”. Nel 1505 sposò, a 56 anni, Maria Torresano, di appena 20 anni: era figlia di Andrea Torresano da Asola, lui stesso tipografo, che dal 1495 era entrato in società con Aldo (Giulio Busi lo definisce  “prudente e taccagno”, ma senza spiegare perché). Suocero e cognati di Aldo ne proseguirono, poi, l’attività dopo la morte, insieme al figlio Paolo, padre di Aldo Manuzio il Giovane. Dal matrimonio erano nati anche Alda e Antonio. L’alta società che frequentava lo portò ad imparentarsi con nobili casate di Firenze, come gli stampatori Giunti (Aldo Manuzio il giovane sposò la figlia di Bartolomeo di Lucantonio Giunti).  (Fine della prima parte).

 

22 Marzo, 2013 - Nessun Commento

LA SUPER RAZZA DI MUSSOLINI
IN AGRO PONTINO SA DI BUFALA

Con imperdonabile ritardo mi occupo di un argomento apparso sul quotidiano Il manifesto del 2 giugno 2011, ma che riprendo dal blog di Lo Leggio: il tema è “I vivai umani del Duce. Eugenetica e bonifiche”. L’articolo nasce da una intervista concessa dallo storico americano della medicina Frank Snowden, autore di una bella storia della malaria in Italia (The conquest of malaria, tradotto da Einaudi qualche anno fa). Una bella storia che contiene una gravissima denuncia contro i nazisti, accusati di aver sabotato gli impianti della bonifica dell’Agro Pontino per puro spirito di vendetta contro gli Italiani traditori, allo scopo di scatenare una violenta epidemia malarica. L’epidemia, in effetti, ci fu nel 1944 (er non solo in Agro Pontino), ma Snowden trae motivo da essa per attribuirne le responsabilità ai nazisti che, francamente, non avevano bisogno di “abbellire” il loro palmarès degli orrori con questo exploit. Snowden, però, compie un errore grave per uno storico: attribuisce la colpa, ma non la dimostra con le carte, limitandosi a dire;: se si troveranno negli archivi i documenti che convalideranno questo pensiero, ecc. Ossia è solo un pensiero, storicamente non dimostrato. Per quanto mi riguarda e sulla base dei modesti studi e della modesta conoscenza che ho dei fatti di guerra svoltisi nell’ allora provincia di Littoria, quella epidemia si spiega in tutt’altro modo, il che significa che l’attribuzione ai nazisti è una bufala. E così mi merito l’appellativo di difensore degli stragisti.

Nell’articolo cui accenno all’inizio di questa nota, invece, Snowden attribuisce a Mussolini di aver concepito la migrazione di coloni (o non coloni) dal Friuli, Veneto, Emilia Romagna, Abruzzo (e perché no, dallo stesso Lazio) ad un suo progetto di eugenetica. Ossia Mussolini avrebbe concepito e attuato, con l’aiuto del sottosegretario alle Migrazioni Interne (che si chiamava, guarda caso, Razza!) l’idea di impiantare nel suo amato Agro Pontino bonificato una nuova razza di superuomini, attraverso un’operazione di eugenetica che sarebbe passata attraverso la selezione dei migliori coloni, sarti, autisti di autocarri, bottài e antifascisti (anch’essi vennero fatti migrare verso le nuove terre), affinché essi mettessero in piedi una super-genìa di uomini “superiori” capaci di affrontare il cattivo ambiente malarico e, chissà, la futura guerra che Mussolini stava concependo.
Anche qui, per quanto ne so e per quanto se ne sa dalle molte letture di documenti e di archivi storici, oltre che dal ricordo dei vecchi protagonisti di quella migrazione, l’impressione è che stiamo navigando nel campo della fantasia. Snowden, infatti, anche stavolta non porta un solo documento a sostegno della sua tesi, e sembra anche ignorare le feroci liti tra il sottosegretario Razza e il suo collega Commissario dell’Opera Nazionale Combattenti, Valentino Orsolini Cencelli che lo accusava di mandargli a colonizzare le terre bonificate non già robusti e bene addestrati coloni, ma tutto quello che non serviva più nelle regioni di provenienza. E ciò, sia nel senso della abilità sul lavoro, sia nel senso della robustezza e della resistenza fisica al lavoro duro che si doveva fare in Agro Pontino. Forse faceva parte di questa opera di selezione dei forti il divieto sancito nei contratti di mezzadria tra Onc e assegnatari colonici che questi non dovessero bere il latte che producevano, salvo che fossero bambini, anziani e malati?
Forse sto esagerando, e qualcuno penserà che le due affermazioni di Snowden stiano diventando per me un gesto di antipatia personale. Niente affatto: non conosco Snowden se non per quel che ha scritto, riconoscendogli la validità del lavoro fatto. Ma proprio per questo non riesco a capire come possa spacciarsi per “operazione” di Mussolini una idea dello stesso Snowden non rintracciabile da nessun documento. Naturalmente sono pronto a rimangiarmi tutto quello che qui ho scritto, se salta fuori qualche documento. Ma ditemi se la foto di una famiglia colonica immigrata in Agro Pontino come quella che appare qui può essere il segnale di una super-razza, sia pure in fieri.