7 Maggio, 2013 - Nessun Commento

GIULIO ANDRETOTTI QUANDO ERA “PONTINO”

Giulio Andreotti in una foto pubblicata dall'Agi, l'agenzia di stampa che per prima ha battuto la notizia della scomparsa del senatore a vita

Giulio Andreotti, è morto con lui mezzo secolo e più di storia politica anche della provincia di Latina. Dall’epoca in cui, da signore assoluto, trovò improvvisamente sulla sua strada un giovane ma deciso amministratore, che si chiamava Vittorio Cervone, già segretario provinciale della Democrazia Cristiana e già sindaco di Latina. Al XII congresso provinciale della DC pontina, svoltosi a Fondi nel giugno 1961 (erano gli anni in cui i congressi politici erano autentiche battaglie tra correnti, combattute con tutti i mezzi ma con una cavalleria oggi sconosciuta), Giulio Andreotti era accompagnato dal suo stratega del tempo, l’onorevole Franco Evangelisti, divenuto noto con la locuzione un tempo famosa: “A Fra’, che te serve”. Cervone vinse, capitanando una lista di capicorrente (si chiamava “Concentranzione”) che sostenevano l’orgoglio della “pontinità” (si chiamavano, per fare qualche nome, Mario Bellini, Rodolfo Carelli, Riccardo Bellomo, Pasquale Corbo, Mario Costa, Francesco Paolo De Arcangelis, Ninì Matteis, Candeloro Mignano, Dante Monda, Geppino Riccardelli, Vincenzo Rossetti, Ugo Sestili, Benedetto Soccodato, De Risi, Macci, Nardacci, Mennella. Dall’altra parte si trovava la lista di “Continuità” degli andreottiani originali con Guido Bernardi, Franco Ottaviani, Antonetti, Cardi, Di Summa, Fauttilli Sr., Jalongo, Marraccioni, Palombi, Pietraccini e Venditti. Erano battaglie che si combattevano sul lungo periodo. E molti di “Concentrazione” divennero andreottiani, nel tempo. Ma Andreotti non volle mai essere riconosciuto come un soggetto dividente: la sua autorità di uomo di governo (7 volte premier, 19 volte ministro) lo poneva al di sopra delle parti, e la sua frequentazione non disdegnò mai quelli che gli si opponevano. Aveva uomini che sapevano seminare per lui, come Mario Venditti e Mondino Tulli, efficienti e sorridenti, rassicuranti. Sapevano garantire spalle coperte, ed era un argomento che faceva attrazione.

Andreotti sapeva anche assicurare la sua presenza “familiare” in provincia. Nel 2009, in occasione del suo novantesimo compleanno, si trovava, come spesso d’estate, a San Felice Circeo. Alcuni suoi ammiratori vollero organizzargli una piccola festa di compleanno, presso il Grand Hotel Maga Circe, e gli donarono un orologio con scritto su il suo nome e il numero 90. Lui, che già si era incurvato più che nelle impietose vignette satiriche, e si sarebbe incurvato ancor più man mano che andava avanti il processo che subì in Sicilia, dimenticò tutti i suoi malanni e fece, come sempre, ricorso alla sua ironia, anzi all’autoironia: “Meno male che ve lo siete ricordati ora – disse nelle due battute che pronunciò – perché forse l’anno prossimo non avreste fatto a tempo”. E, invece, ci sarebbero stati altri quattro anni di tempo. In tanti lo ricordano mattiniero, insieme alla moglie, seduto nei primi banchi della chiesetta dell’Immacolata, alla messa che frequentava quotidianamente, nel silenzio delle prime ore della giornata estiva. Vi arrivavga accompagnato in auto da qualcuno, lui che abitava piuttosto lontano, su a villa Aguet, o ospite di qualche amico sul versante di Quarto Caldo. Quel giorno di compleanno raccontò anche dell’origine delle sue mitiche e atroci emicranie: “Cominciai prendendo sole da giovane nelle vacanze che passavo a Terracina”, diceva, dando, forse, un po’ di colpa a quel sole dal quale cercava di ripararsi con un leggero cappellino chiaro, e che evitava nelle lunghe ore dedicate alla lettura di libri e documenti. Ebbi l’occasione, in quella circostanza, di donargli una copia del libro che avevo scritto per i 50 anni della splendida litoranea Flacca. Lo guardò con curiosità, lo sfogliò un attimo, quasi sorpreso, forse per cortesia, di una cosa che pure ricordava perfettamente, perché insieme al ministro Pietro Campilli se ne riteneva co-autore, guardò alcune vecchie fotografie che ritraevano amici che ormai erano passati, di moda o da questo mondo. E sembrò che nella fessura  che le sue labbra sottili disegnavano sul suo volto, passasse un lieve sorriso di compiacimento, per esserci ancora a quei 90 anni.

26 Aprile, 2013 - 1 Commento

EROSIONE. SPENDERE SOLDI E DISTRUGGERE SPIAGGIA

Il Comune di Latina ha reso noto che sono stati sbloccati dalla Regione Lazio i fondi, e quindi la gara, per interventi di rinascimento del litorale del Capoluogo pontino, massacrato da un inverno di mareggiate. In realtà, l’erosione marina ha cominciato, ben prima di queste ultime mareggiate, a svolgere tutte le sue “fisiologiche” funzioni divoratrici, che iniziano da quando sono iniziati nell’area più occidentale (Foceverde) interventi sbagliati. Prima con la scogliera di protezione, poi con il primo “pennello” o scogliera insabbiata in modo normale alla linea di costa. Quella “fisiologia”, ormai nota da tempo, dice che ponendo uno sbarramento ad ovest, sul sito dello sbarramento si crea un qualche deposito di sabbia, ma subito dopo si crea verso est un vuoto che accentua il naturale processo di erosione. Allora, per bloccare questa nuova sottrazione di arenile è necessario costruire un nuovo “pennello” più a est, che ricreerà un qualche deposito di sabbia, ma a oriente del quale si aprirà una nuova falla erosiva. Ed è con questo ritmo che il Lido di Latina sta divorando negli ultimi anni soldi per sempre nuovi “pennelli” e per coprire sempre nuove erosioni, che ormai marciando decisamente verso Capo Portiere e Rio Martino. Proseguendo in questo modo diventa arduo non immaginare che nel giro di qualche anno Latina passerà il testimonio a Sabaudia nella gara di costruire pennelli, incrementare erosione e sperperare soldi E Sabaudia già ha a che fare con il fenomeno, forse proprio a causa di quei “pennelli” posti a Foceverde. Con quali risultati? Uno spreco di denaro, e la trasformazione totale di un litorale stupendo in una catena di scogli. E’ questo che si voleva ottenere?

Già, ma allora cosa si doveva fare? La Regione avrebbe dovuto fare solo una cosa: rileggersi gli studi fatti negli anni Ottanta del Novecento, considerare i positivi risultati ottenuti dal “piano decennale” di rinascimento (morbido), evitare di fare nuovi e inutili (o quasi) studi, risparmiare un po’ di denaro, risparmiare paesaggio e salvare la spiaggia. Più a buon mercato e senza distruggere la linea di costa.
Possibile che ogni volta che ci si imbatte in questo fenomeno erosivo, ormai studiato dal 1964, quando esplose per la prima volta con violenza, si debba ricominciare con studi già fatti e collaudati, e spendere due volte denaro pubblico, come se ne avessimo senza limite? E’ gradita una risposta.
E, intanto, aspettiamo anche che l’astrologo crepi sulle previsioni di nuovi danni ad opera del ”nuovo” porto di Rio Martino.

15 Aprile, 2013 - 1 Commento

MATER MATUTA, LA DEA DELL’OTTIMISMO

Il grande tempio (o meglio, quel che resta) dedicato alla Mater Matuta sorge sulla collinetta in località Le Ferriere di Borgo Montello, comune di Latina, che guarda verso il fiume Astura. E’ stato oggetto di primissimi scavi tra le fine del 1800 e i primissimi anni del 1900, a cura di Bernabei e Mengarelli, poi dalla seconda metà del Novecento a tutt’oggi, a cura dell’ Istituto Olandese di Cultura di Roma, che ha pubblicato anche importanti studi sul sito (da ultimo, Marijke Gnade, direttrice degli scavi). La Mater Matuta è una dea dell’ottimismo, si potrebbe dire; è stata accostata ad altre omologhe divinità pagane (in provincia di Latina, alla dea Marìca, titolare di un tempio, i cui resti sono quasi alla foce del fiume Garigliano, tra l’antica Campania felix e il Latium adjectum. Una dea positiva, dunque, perché ad essa si attribuiscono la potenza e le virtù della nascita umana, del sorgere del sole, della maturazione dei frutti, insomma di tutto ciò che accende nuove forme di vita.
Ad essa Stanislao Nievo, che da queste parti ha vissuto le sua prima giovinezza e si è abbeverato di ormai trascorse passioni, ha dedicato in un suo romanzo del 1979 (Aurora, A. Mondadori, Milano) le seguenti parole, che pare bello ripetere così come sono state scritte, quasi alla vigilia di quella che un tempo fu il suo giorno di festa.
“Mater Matuta, divinità del mattino, l’Aurora figlia della dell’Armonia. Dea del parto. Presiede alla crescita di piante e bambini. La sua festa si celebrava nei Matralia, il giorno 11 giugno. Il culto era affidato solo alle donne sposate. Escluse le schiave. Matuta, reincarnazione della dea greca Ino Leucotea dopo il suicidio nelle onde dello Jonio ( che da Ino prese nome) fu portata sulle rive del Tevere dalle Najadi e qui assalita dalle Baccanti istigate da Giunone mentre celebravano i riti dionisiaci, nel bosco di Stimula sull’Aventino. Salvata da Ercole, fu da questi affidata a Carmenta, madre di Evandro, fondatore del primo villaggio sul Palatino. Carmenta, antica divinità profetica del luogo, ne annunciò il culto a Roma. Compagna del Padre Mattutino grano, madre di Portuno dio fluviale dei porti, Matuta aveva templi a Satrico, Cere, nel Foro Boario a Roma, a Benevento, a Cales a Preneste, quasi sempre collegate agli dei. Per certi aspetti incarnava alcune dee orientali, Cibele, Demetra, e forse Astarte. Il suo nome fu trovato su un altare in Siria. Indicata anche come dea della primavera. Tra le dee italiane è assimilata a Daunia e a Northia Volsinia (pag. 53-54).
“Mater Matuta rappresentava un principio irrinunciabile, che dall’oscurità fertile, porta la luce del mattino. Matuta, da manus, buono maturo, ciò che sta al punto giusto (pag. 56).