3 Agosto, 2013 - Nessun Commento

UN COMMENTO A The Conquest of Malaria

Il Signor Esme Howard scrive dall’Inghilterra, dopo aver letto l’articolo dedicato su questo Blog al libro di Frank Snowden nel marzo 2013 (potete trovarlo nell’indice).

Sono rimasto interessato vedendo nel tuo blog di Marzo questo tema e le accuse di Snowden verso i tedeschi. La prima volta che io sentii discutere di questa faccenda fu viaggiando verso il sud della Cumbria, forse sette anni fa. In una trasmissione radio un Laziale parlava con rabbia contro gli Italiani collaborazionisti che secondo lui aiutarono i tedeschi a far tornare la malaria nella zona Pontina. Quando parlammo con te della cosa, tu già avevi dei dubbi. In una rivista, ho trovato questo sommario del libro di Snowden:  In the most shocking part of the book, Snowden describes – passionately, but with the skill of a great historian – how the retreating Nazi armies in Italy in 1943-44 deliberately caused a massive malaria epidemic in Lazio. It was “the only known example of biological warfare in 20th-century Europe”. The Germans flooded the plains at a certain point of the year, causing the maximum damage to the local population. This was yet another example of the “total war” waged by the Nazis upon the civilian population in Italy, a war which included massacres, theft and destruction. Ironically, it was the jewel in Mussolini’s crown – the new city of Littoria (now Latina) which suffered the worst damage at the hands of his own allies. Shamefully, the Italian malaria expert Alberto Missiroli had a role to play in the disaster: he did not distribute quinine, despite being well aware of the epidemic to come. Snowden claims that Missiroli was already preparing a new strategy – with the support of the US Rockefeller Foundation – using a new pesticide, DDT. Missiroli allowed the epidemic to spread, in order to create the ideal conditions for a massive, and lucrative, human experiment. Fifty-five thousand cases of malaria were recorded in the province of Littoria alone in 1944. It is estimated that more than a third of those in the affected area contracted the disease. Thousands, nobody knows how many, died. Mi sembra strana la mancanza di documenti che tu segnali. Ho comprato il libro e quando avrò tempo m’informerò. Trovo credibile che i nazisti abbiano fatto atti di sabotaggio biologici nel Lazio, ma meno probabile che Mussolini, anche se faceva vanto (come fece alla presenza di mio nonno)  del suo lavoro in Terra Pontina, volesse la ‘super razza’ sulla costa. Ho trovato, pero, il libro War and the Environment: Military Destruction in the Modern Age del 2009, nel quale c’è la testimonianza di Paul Russell. In questo, in conformità a lettere, corrispondenze e scritti di diario, (nelle pagine 117-118), si racconta la collaborazione tra Albero Missiroli e due tedeschi esperti nella malaria – l’accademico Erich Martini, Università di Amburgo e Ernst Rodenwalt di Heidelberg che in ottobre 1944 sono venuti in Italia proprio per sovraintendere all’inondazione del delta del Tevere (3000 ettari sottacqua in due mesi) e nell’ agro Pontino (6000 ettari). Paul Russell della Fondazione Rockefeller, esperto americano sulla malaria, che subito dopo guerra organizzava le opere alleate per il controllo della malaria in Italia, scrisse di quanto aveva visto della distruzione tedesca delle pompe di drenaggio, a volte mese in retro-marcia per più degradare l’ambiente e far ricrescere la malaria come atto di guerra biologico e non di puro sabotaggio. Missiroli, pure lui, con il suo atteggiamento piuttosto scientifico, ha giudicato che la malaria sulla costa Laziale  era tornata come nel secolo precedente.  Sono d’accordo con te che non si può concludere che i Nazi fecero tutto ciò per motivi di vendetta contro gli Italiani ‘traditori’. Fu, secondo Russell, atto di guerra ben deliberato perché lanciato originalmente nel 1943, e portato ad un crescendo nel 1944 visto l’andamento della guerra e l’importanza di Roma. Che me pensi? F.to Esme Howard,

La mia risposta sta in quanto ho già brevemente scritto su questo blog, e più diffusamente su un piccolo libro che scrissi qualche anno fa e che ha per titolo “Le tre malarie”. In conclusione: le tesi in storia vanno dimostrate con i documenti, e fino ad oggi essi non sono emersi. Ma continuiamo a cercare.

 

 

3 Agosto, 2013 - 2 Commento

La scomparsa di una cara Collega
LE STORIE “SEMPLICI”
NARRATE DA RITA CALICCHIA

Rita Calicchia, giornalista (già Capo Ufficio Stampa del Comune di Latina), appassionata di storia del nostro territorio, ancor più appassionata delle canzoni di Renato Zero, leader sul suo lavoro,  ci ha lasciati a soli 54 anni. E’ stata “personaggio”, senza esibizionismi, con la consapevolezza del ruolo che ha svolto e delle responsabilità che ha portato quando ha messo la sua conoscenza della comunicazione a disposizione della collettività di Latina. Nell’ottobre del 2012 mi chiamò al telefono chiedendomi quello che Lei definì “un favore personale”. Le risposi che era Lei che faceva un “favore personale” a me chiedendomi di presentare quello che all’epoca era il frutto della sua ultima ricerca: un piccolo libro dedicato a Santa Maria Goretti. La presentazione avvenne, poi, a Cisterna, il 7 novembre, e si trasformò in una performance, perché dopo che alcuni ebbero detto del libro, Rita ci riservò l’improvvisata di una sua trasposizione in scene della migrazione marchigiana in Palude pontina e nella riproposizione scenica di alcuni episodi della vita della “Santa bambina”, con la collaborazione di alcuni bravi giovani. Vorrei ricordarla riproponendo il testo (quasi completo) della presentazione che intendevo fare e che Rita rivoluzionò con le sue sorprese, inducendomi, a mia volta, a lasciare il testo, e ad improvvisare. Anche questo era Rita.

Un nuovo libro di Rita Calicchia

Sento il bisogno di ringraziare la cortesia e l’amicizia di  Rita Calicchia, per avermi dato il peso, ma anche il grande piacere di contribuire alla presentazione del suo libro questa sera a Cisterna. E’ un ringraziamento non di maniera, così come sicuramente non di maniera è stata la sua scelta della mia persona, giustificata da un’antica frequentazione tra colleghi che hanno operato da posizioni diverse nel fronte della comunicazione, e che hanno contribuito, secondo le loro possibilità, a fare della comunicazione uno strumento di crescita della conoscenza. Questo lo dico con grande franchezza, senza rivendicare meriti particolari, ma solo per sottolineare una scelta di campo, che non riguarda tanto il sottoscritto se non per il fatto di avere seguito negli anni la costante trasformazione dell’attività di Rita Calicchia, da responsabile istituzionale di un delicatissimo settore – come quello dell’Ufficio Stampa del Comune di Latina, capoluogo della nostra Provincia – in  ricercatrice e autrice di libri, articoli per giornali e riviste, produzione di filmati e di servizi televisivi, dedicati a quanto la nostra provincia offre di bello, di buono, di culturalmente rilevante, di significativo sotto l’aspetto antropologico e culturale. Di solito si pensa che chi è chiamato a presentare un libro abbia l’obbligo di parlare bene di esso. Confesso che nel passato, in altre circostanze, non ho saputo resistere ai miei doveri di amicizia, anche a danno della oggettività della presentazione. Ma poiché, ormai, il tempo delle piccole ipocrisie è passato, sostituito da quello dei capelli bianchi, come si dice,  assicuro che ciò che dirò è frutto di una convinzione onestamente  maturata. Dovendo presentare questo libro, ho dovuto, ovviamente, leggerlo. E poiché sapevo che è dedicato a una persona molto particolare, al cui ricordo sono legato per un complesso di motivi, ho affrontato la lettura muovendomi con attenzione. Maria Goretti, per me, era un deposito sentimentale e religioso del tutto inconscio. Ne avevo sentito parlare a casa, ne avevo parzialmente seguito la canonizzazione pronunciata dal Pontefice Pio XII nel 1950, quando ero ancora molto giovane; avevo sentito delle polemiche che da una parte politica, la sinistra, era venuta in quei lontani giorni nei quali non era stato ancora digerito l’esito delle elezioni del 18 aprile 1948 che avevano fatto da spartiacque tra la guerra combattuta e conclusa nel 1945 e la guerra fredda che era appena iniziata. Poi mi ero nuovamente imbattuto in Santa Maria Goretti per tre ragioni diverse:

Perché frequentavo la chiesa a lei dedicata a Latina, retta da un amico la cui stima ed amicizia condivido con Rita: è monsignor don Renato Di Veroli, che è stato costantemente presente nella parte centrale della mia vita, impartendo  credo tutti i Sacramenti ai diversi componenti della mia famiglia

Perché avevo scoperto, da giornalista, che Latina era una delle poche città italiane che non aveva il privilegio di evitare il lavoro d’ufficio nel giorno del suo Patrono, in quanto la festività di San Marco cade in giorno già festivo, il 25 aprile

E perché, quando esercitavo la funzione di direttore dell’EPT di Latina, creai una piccola collana di titoli dedicati alla cultura anche in funzione delle visite turistiche, e uno dei titoli fu dedicato a Santa Maria Goretti e al suo santuario.

La prima di queste tre ragioni (la chiesa) ha avuto un seguito dettato da circostanze sulle quali non mi trattengo; la seconda dette luogo ad una sorta di polemica sindacal-governativa che un mio articolo su Il Messaggero sollevò, e che si concluse con il riconoscimento del diritto a considerare il giorno 6 luglio, giorno dedicato alla santa bambina, come giorno festivo per Latina, atteso il suo compatronato sulla città che era stato attribuito da Pio XII al momento della canonizzazione di “Marietta”. La terza ragione ha un suo graditissimo seguito anche oggi, che mi sono ritrovato con padre Alberti, che l’EPT incaricò nel 1991 di scrivere il testo del Quaderno dedicato alla Santa nel centenario della nascita e a ricortdo della visita pastorale che Papa Giovanni Paolo II effettuò il 29 settembre di quel 1991. Oggi padre Alberti, divenuto rettore del Santuario gorettiano di Nettuno ci fa il regalo della sua presenza e della sua sapienza sulla breve ed intensa vita di S. Maria Goretti. Come vedete sono maturate diverse coincidenze che giustificano questa serata.  E il valore del libro di Rita Calòicchia non è certamente l’ultima.

Quando Rita mi ha generosamente invitato a tenere questa presentazione, mi ha, grosso modo, detto: guarda, non pensare che io abbia scritto chissà che cosa. Ho voluto fare un racconto semplice, e l’intento è chiaramente detto nel titolo: una storia piccola per una grande storia. Ma se la storia di Maria Goretti è grande, non è vero che raccontarla con le parole semplici  e comprensibili che ha usato Rita la autorizzino a chiamarla “piccola”. Tutt’altro. Potrà definirsi semplice, perché è un racconto fatto per essere compreso e per entrare nei cuori di tutti, non per far sbalordire storici e ricercatori. E’ un racconto semplice per persone che hanno il cuore semplice, e disposto ad aprirsi. Del resto, Rita non doveva imitare nessuno: non Padre Alberti, che alla vita della piccola Santa ha dedicato tutta la propria vita di uomo di fede e di scrittore, ed ha avuto modo di vincere tanti sorrisetti scettici, tante critiche sulla velocità con cui è andato avanti il processo di beatificazione prima e di santificazione poi. A questo proposito non dobbiamo dimenticare una bella frase riepilogativa dello stesso Padre Alberti: “Santa Maria Goretti non è stata la Santa di 5 minuti”. E a testimoniare quanto fosse convinto il sentimento popolare verso quella povera bambina sconosciuta, non va dimenticato  che la devozione per la piccola Santa è esplosa immediatamente, e presso le persone più semplici, e quella devozione è stata la miccia che ha innescato il processo canonico. Non è il caso di mettersi a fare paralleli fra opere diverse, diversi essendo i punti di partenza degli autori. Ad esempio, mentre leggevo il libro di Rita mi è venuto più volte da rievocare il differente modo con il quale un autore professionista ha avuto la pretesa di dire la stessa storia. Mi riferisco ad un libro di Giordano Bruno Guerri di alcuni anni fa, Povera santa, povero assassino. Il linguaggio di Guerri è sprezzante: la storia non lo interessa, gli interessa il suo modo di interpretarla. Persino nella descrizione delle ferite di Maria egli usa un linguaggio ed evoca immagini scostanti. Tutto è messo in dubbio, tutto è costruito per sostenere un laicismo irrispettoso, becero e irridente. Rita parte invece dalla fede che l’assiste e l’aiuta e che la deve aiutare ed assistere ancor più nei momenti difficili che ha vissuto o che vivrà. Non a caso, a padre Alberti che è il testimone silenzioso ma citato di questa storia di Rita, ella fa continuo e sicuro riferimento, come chi deve attraversare un ,mare periglioso, sapendo di poter contare in ogni momento su in approdo a portata di mano, e su una zattera di salvataggio che non le viene negata. Nel libro c’è anche un altro testimone, che appare solo nelle primissime pagine, per poi scomparire, ma che per i lettori che lo conoscono e lo hanno conosciuto è sempre presente. Intendo parlare di don Renato Di Veroli, per decenni parroco di Santa Maria Goretti in Latina, un sacerdote che ha abbondantemente superato i 90 anni, con la mente fresca e la voglia di lavorare non indebolita dai trascorsi. Ma fatemi spiegare perché compio volentieri questo mio impegno di lettore pubblico della storia scritta da Rita Calicchia.

Ai tempi della migrazione dei Goretti

Una storia deve essere presentata sempre facendo risaltare il palcoscenico sul quale essa si svolge. Una storia ha il suo palcoscenico nelle vicende che caratterizzano il tempo e nell’ambiente in cui i protagonisti vivono. Rita compie questo suo dovere di ricerca storica con grande correttezza, fornendo una immagine sintetica ma efficace e compiuta del mondo di Maria Goretti, dei suoi fratellini, dei suoi sfortunati genitori, del milieu contadino, e di quel mondo diviso tra pochi fortunati e tanti sfortunati, tra i quali la famiglia Goretti. I Goretti lasciano la loro all’epoca avara terra, le Marche, in cerca di fortuna che sperano di trovare là dove può esserci lavoro. Con i pochissimi, sparuti mezzi di cui dispongono e dopo traversie che li spostano da una parte all’altra del Lazio, giungono ai confini con Campomorto, che all’epoca non a caso si chiamava così […]. E’ in questo periodo che nella tenuta Gori Mazzoleni giunse anche la famiglia Goretti. La malaria poi uccise il capofamiglia, Luigi, e tutto il peso della gestione famigliare cadde sulla madre di Maria e su Maria stessa, che a dieci anni sentì gravare sulle sue gracili spalle il tremendo peso di accudire ed educare i suoi fratellini. Questo quadro miserando, che ha nei Goretti l’esempio-tipo, emerge da una famosa, anche se ai più sconosciuta indagine parlamentare sulle condizioni di vita di chi, padrone o sottoposto, si dedicava in quei tempi all’agricoltura. La diresse un conte lombardo, Stefano Jacini, proprietario terriero ma riconosciuto coine persona equa e sensibile. Dalla inchiesta Jacini esce un’immagine della vita contadina e bracciantile che sgomenta gli stessi commissari inquirenti. E da lì nacquero alcuni primi timidi provvedimenti e trovò primo impulso il varo delle leggi di bonifica che si susseguiranno per diversi decenni, fino agli anni Venti del Novecento, quando venne concepita la bonifica integrale delle molte zone paludose d’Italia […]. E’ lì che comincia anche la nostra storia contemporanea. Rita ha ineccepibilmente inquadrato la tragedia della piccola contadina di Cascina Antica con la correttezza di chi deve rendere conto ai suoi lettori di ogni dettaglio, senza affidarsi solo ad un racconto triste ma bello. Lasciatemi dire qualche altra cosa. Perché Rita ha voluto riservare a Cisterna l’onore di essere la prima sede della presentazione di questo libro? A monte di questa domanda ce n’è un’altra: a chi appartenevano Conca  e Le Ferriere all’epoca dei fatti che hanno per protagonista Marietta? C’è stata una disputa  che, forse, a quell’epoca non avrebbe interessato nessuno, ma che dopo la nobilitazione dei luoghi con il martirio della santa bambina, è divenuto motivo di orgoglio chiamare come proprio territorio comunale. Per quanto riguarda l’oggi, non c’è discussione: siamo a Latina. Ma prima di confluire nel nuovo territorio di Littoria, a chi appartenevano quelle terre?  Cisterna le rivendica, e ne avrebbe buone ragioni, tra l’altro per il fatto che da qui partivano servizi sanitari e religiosi per quelle povere popolazioni. Cisterna, difatti, è stato il principale fulcro economico di quell’epoca; e qui a Cisterna si formarono le prime strutture sanitarie d’avanguardia nella lotta alla malaria, con un centro diretto dal prof. Ettore Pais, che riteneva di poter combattere il male usando i raggi Roentgen. Per Cisterna si progettò anche la costruzione di un ospedale – sarebbe stato il primo della Palude pontina – che però poi non si fece per varie ragioni. […]. Cisterna sarebbe divenuta nel giro di una ventina di anni anche il polo tecnico e commerciale, grazie da un lato all’Appia e dall’altro alla Direttissima Roma-Napoli, che qui realizzò una stazione nei primi anni Venti. Poi sarebbe stata il centro di smistamento dei contadini veneti ed emiliano-romagnoli che venivano indirizzati verso le aree poderili dell’Agro bonificato.

Di più: Cisterna era già un’area fortunata rispetto a quelle circostanti che si erano formate dopo l’Unità d’Italia. E’ noto che le leggi eversive portarono alla rottura del grande latifondo della Chiesa, ma anche ad una impropria vendita a signori e signorotti dell’epoca, lasciandone fuori i contadini e i braccianti. L’inchiesta Jacini e le ricerche compiute negli archivi parrocchiali e diocesani hanno messo in luce l’esistenza di un sistema fondiario basato sulle “tenute”, che si erano formate prima e, soprattutto, dopo le ricordate leggi eversive che avevano espropriato all’ex Stato Pontificio  tutte le proprietà terriere. Esse furono affidate a nuovi e vecchi latifondisti, che erano spesso le stesse persone che avevano preparato quelle leggi. Le vendite maggiori avvennero tra il 1873 e il 1881, quando furono alienati circa 27 mila ettari, mentre altri 14 mila vennero dati in enfiteusi. A nord e sud di Roma si formarono, così 357 “tenute” […].  Erano zone a bassissimo indice di civilizzazione, a grandissima miseria, ad economia basata sull’agricoltura e sullo sfruttamento della boscaglia. A Conca dopo la chiusura dell’antichissima industria papalina per la lavorazione del metallo, la Ferriera, c’era lavoro solo con le carbonaie, il bestiame, il commercio del legname, ma era un’area ancora fortunata, perché era porto franco, esente da tasse.  Erano tempi davvero bui, se si riflette che ancora nel 1882 numerosissime famiglie dovevano vivere in “345 capanne e 49 grotte“, come citava il censimento.  L’analfabetismo era diffuso, anzi generalizzato, e il lavoro minorile era normale e sfruttato: si cominciava a lavorare anche prima dei dieci anni e solo una legge del 1902 innalzò l’età lavorativa minorile a 12 anni. C’era, però, una norma di salvaguardia per i bambini che di anni ne avevano solo 10: diceva che essi “non possono essere impiegati nel lavoro per più di 8 delle 24 ore del giorno“.  Il lavoro non conosceva festività: il parroco di Conca lamentava che anche nel giorno della Prima Comunione i bambini venivano impiegati nei campi fino a pochi minuti prima della cerimonia. Questo avveniva a poche decine di chilometri dalla Roma dei grandi ministeri, dei grandi appalti, della gigantesca speculazione edilizia sui nuovi quartieri. La malaria era endemica, mancava ogni forma di assistenza sanitaria: a Conca, a Campomorto e Carano, tra il 1897 e il 1899, il medico registrò “diversi morti” senza neppure precisarne la quantità, tanto era un dettaglio trascurabile anche per un medico.

Ma torniamo a quella domanda: in quale comune si trovavano Conca e Le Ferriere? La risposta è che appartenevano, insieme all’Acciarella, a Nettuno, che dovette cederle a Littoria quando questa fu proclamata capoluogo di provincia. L’atto è sancito nel RDL n. 1682/1934. Questo fu l’ambiente dei Goretti, – fatto di malaria, di promiscuità, di emarginazione, di analfabetismo, di miseria – e questo è l’ambiente in cui Rita Calicchia colloca la sua ”piccola storia”, che può essere letta da tutti, grandi e piccini, e tutta d’un fiato, perché lo stile usato è chiaro, scorrevole, familiare, come una buona favola che si erge come un muro di protezione dalle cose sgradevoli che spesso dobbiamo ascoltare o vedere oggi. E le vicende sono accompagnate da documenti che certificano la serietà della indagine che Rita ha compiuto, e che credo dobbiate premiare con una buona, rinfrancante e consolante lettura.

 

 

17 Luglio, 2013 - Nessun Commento

UNA PROVINCIA “STREGATA”

VENTOTENE – Dopo il bel romanzo di Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, vincitore del Premio Strega 2010, il territorio della provincia di Latina rimbalza ancora una volta nelle parole di un altro Premio Strega, appena proclamato, Walter Siti (Resistere non serve a niente, Rizzoli, 2013). Siti si occupa di questo territorio in un lungo racconto apparso su Il Sole24Ore, edizione Domenica 7 luglio 2013, dal titolo Se non fai il bravo ti mando a Ventotene. A parte il piccolo e perdonabilissimo abbaglio presente proprio in quel titolo (la vera e vecchia minaccia si riferiva alla Gaeta della prigione militare> “Ti mando a Gaeta!” significava andare a passare un po’ di tempo nel carcere duro del castello angioino/aragonese, fortunatamente riscattato almeno a quella brutta fama) Walter Siti immagina di dover scrivere/inventare un racconto stando sulla bella isola tirrenica, madre involontaria ma effettiva del Manifesto per un’Europa libera e unita (il Manifesto di Ventotene, appunto) di Altiero Spinelli e compagni di confino. E un po’ affidandosi alla sua qualità di scrittore, un po’ alla fantasia di inventore costruisce un trasognato racconto notturno lungo le stradine ventotenesi, in un giorno d’estate, anzi in una notte illuminata dalla luna, nella quale il paesaggio scorre tra magie di ambienti, evocazioni della rudezza e della fragilità vulcanica, inseguimento di un’invenzione che fatica ad emergere, ricerca del realismo con quella abusiva discesa (e ancora più con quella faticosa risalita) lungo lo scoscendimento franoso di Cala Rossano, alla ricerca della quiete e della pacata rudezza di un ambiente, dal quale ritorna alla realtà con l’incontro finale di una bella ma scostante “maga”. Un ambientamento è]sempre testimonianza di non indifferenza (perché non contestualizzare quel trasognamento a Panarea o all’Asinara, ad esempio?), del che la provincia di Latina, ancorché prossima alla cancellazione toponimica, deve essere grata a Walter Siti ed alla sua penna. Magari con l’acquisto del suo libro vincitore dell’ultimo “Strega”, cosa che ad uno scrittore e al suo editore sono sempre cosa grata.