15 Giugno, 2017 - Nessun Commento

IL DIALETTO DI SERMONETA
DI UN SECOLO FA (E PASSA)

ceccarinidi Dante Ceccarini (*)

Al contrario del dialetto sermonetano di fine Novecento e inizio Duemila, il sermonetano di 100-150 anni fa risente delle grosse influenze ciociaro-abruzzesi, do qualche influenza dal napoletano e poche dal romanesco. E’ un sermonetano, per me, più verace, più popolare e (il che non guasta) più divertente, più musicale, più ironico ed auto-ironico.

Due note storiche, ora, riguardo a questo dialetto. Il sermonetano, come quello dei paesi dei Monti Lepini, è classificato come un dialetto Mediano dell’Italia centrale, con influenze romanesche, da una parte, e ciociaro-abruzzesi, dall’altra. L’influenza romanesca è divenuta ultimamente preponderante su quella ciociaro-abruzzese. Quindi il sermonetano è un dialetto di “coniugazione” delle due influenze che si sovrappongono. Ma, come tutte le lingue e i dialetti, anche il sermonetano non è immutabile nel tempo, ma cambia, si aggiorna, perde alcuni vocaboli e si arricchisce di altri (come quelli della moderna tecnologia): opporsi ad un tale cambiamento ed aggiornamento, è operazione futile oltre che inutile. Vorrei richiamare l’attenzione su alcuni vocaboli, particolarmente belli e per me significativi, che appartengono al dialetto più “agèe”.

Il verbo “mozzega’” (mordere) è più arcaico del contemporaneo “mozzica’” (romanesco). Dei termini “cìncio” e “stràccio”, “cìncio” è peggiorativo di “stràccio”, per cui “rimane’ cógli cìnci” è molto peggio di “rimane’ cógli stràcci” e significa “rimanere in assoluta povertà”.

“Le màzze” sono gli intestini (termine più arcaico), mentre il termine più moderno è “budégli”. Un modo di dire sottolinea l’essere fortunati: “tene’ ‘nó grùsso màzzo”, cioè “avere un gran sedere” o “avere una grande fortuna”.

Il verbo “sderuzzi'” significa “lavare bene, lavare a fondo”. È molto bello l’uso della doppia Z in questo verbo e nei verbi e nei sostantivi affini: infatti quando lo sporco è profondo e stratificato si dice “‘ncuzzìto” e la stessa parola per indicare “sporco” si dice “zùzzo”, “zùzzo balùrdo”. Ritorna sempre la Z e la doppia Z.

Ci sono poi gli insulti e gli epiteti. “Polladróne” è la persona (di solito di sesso maschile) che non ha nessuna voglia di lavorare e “ciondola” (in sermonetano “spàzzola”) dalla mattina alla sera tra un’osteria e un’altra, o, più modernamente, tra un bar e un altro).

La persona “cordalènta” è colui che ama sempre rinviare ogni cosa, che ama prendersela comoda, l’accidioso. Ed è molto bella l’immagine che il termine dà: quello di una corda non tesa, ma lenta, lassa.

Lo “schifafatìca” è lo sfaticato e letteralmente “colui che ha schifo, ribrezzo della fatica”.

“Lècio”: la persona lenta di comprendonio e poco intelligente. “Jó ‘mpiàstro” è il pasticcione, disordinato e quindi poco affidabile. “Jó scarcagnàto” è la persona povera e umile. Il povero disgraziato. Letteralmente “la persona senza calcagni, cioè senza scarpe, poverissima”. “Ardegnàccio”: persona scontrosa, ma anche poco raccomandabile, il “poco di buono” in italiano.

“Sbuciàto” è la persona molto fortunata. Deriva da “bùcio” (buco). L’ “asprosùrdo” è la persona rozza, misogina, che rimane sempre isolata, che non socializza con il mondo civile. L’origine del nome risiede nel mitico esemplare di vipera grossa e velenosissima esistente nella fantasia delle popolazioni dell’Italia centrale. Secondo alcuni sarebbe l’ultimo nato (il più velenoso) di una covata di vipere, secondo altri il penultimo. La parola deriva dal latino “aspis” (vipera) e sordo (si dice nel popolo che le vipere appena nate siano sorde).

Ci sono poi gli insulti al femminile. Ne indico alcuni, tutti inizianti con la lettera Z: “zòccola vècchia” (e qui non c’è bisogno di spiegazioni), “zòcchia” e “zolóna”. “Zòcchia” e “zolóna” significano più o meno la stessa cosa: donna sudicia, sporca, anche moralmente.

Ci sono poi verbi arcaici, come “tavella’” e “ciaccola’”, che significano “parlare di continuo, insistentemente”. “Tavella’” significa anche “blaterare” e deriva probabilmente da “favèlla”. “Ciaccola’” invece è un termine onomatopeico e riproduce il tipico verso ripetitivo e cadenzato che fanno le “ciàccole” (in italiano “tàccole”, una specie di corvidi).

Il verbo “storza’” che significa “strozzare”: è una metatesi, cioè una inversione di sillabe o consonanti. Il verbo “ammauglia’” significa mischiare una serie di cose alla bella e meglio, amalgamare ma non uniformemente. Un “ammaùglio” è un amalgama non uniforme, una massa informe, una poltiglia da mangiare. “Cògliesela” è “andarsene”. “Se l’ha còta” cioè “se ne è andato”. “Sbiglia’” (“svegliare”) si usava al posto del moderno “sveglia’”. Il verbo “sconsideràsse” significa “rilassarsi”, “perdere colpevolmente l’attenzione”. Il verbo “capa’” ha diversi significati: il primo è “entrare”, il secondo “selezionare”, “pulire” (ad esempio “capa’ la ‘nzalàta”, “pulire l’insalata”).

Ci sono poi alcuni modi di dire. “Fà vedé le luccicandrèlle de ggiórno”, cioè “far vedere le lucciole di giorno” significa “picchiare”, “bastonare ripetutamente”. “Fà l’anfèrno ‘ncucìna” (“fare l’inferno in cucina”) è cioè fare un caos in cucina, mentre si cucinano i pasti, lasciando una cucina molto disordinata. “Pista’ che màngo màmmeta te riconósce”, cioè “picchiare che neanche tua madre sarà in grado di riconoscerti”. “Mèzz’ómo e rescìto pùro màle” è un dispregativo; “mezz’uomo ed anche mal riuscito”. “Tu che non ssi’ mmài conosciùto pàtto e màngo jo conoscerài” (“tu che non ha mai conosciuto tuo padre e neanche lo conoscerai”: una questa espressione che indica un bastardo, secondo il motto “mater certa, pater numquam”).

Infine due parole arcaiche. La prima è “gatòbbia” che significa “gattabuia”, “prigione”. La seconda è “copèlla” che è una antica unità di misura: corrisponde a mezzo barilotto, cioè 5 litri ed è costituita da 10 “fogliétte” che corrispondono a 0,5 litri l’una. Infatti, nelle osterie di una volta, si ordinavano le “fogliétte”.

(*) Autore di libri sul dialetto e i modi di dire di Sermoneta

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