14 Marzo, 2016 - 1 Commento

LATINA INIZIA A RIFLETTERE SU SE STESSA: E SVELA UN BRUTTO VOLTO

neve monti lepiniSono state due occasioni, diverse come matrice, ma ugualmente utili, per fare qualche riflessione sulla città in cui viviamo, Latina. E’ un polo che ha attraversato piccole e grandi storie di evoluzione nel giro dei suoi 83 anni  dalla data in cui venne inaugurata (18 dicembre 1932): da città “rurale”, come la voleva Mussolini, e del Razionalisno architettonico, a capoluogo di provincia “urbano”; dai 20 mila abitanti dell’anteguerra agli attuali 115 mila e più; dalle migrazioni forzate degli anni della bonifica fascista, alle migrazioni globali che iniziano negli anni Settanta-Ottanta quando accolse gli ospiti espulsi dalla Libia e dalla Tunisia; dalla economia agriciola che fu preponderante fino agli anni Sessanta del secondo dopoguerra (oltre il 60% del prodotto globale locale) alla rivoluzione industriale della Cassa per il Mezzogiorno; dal rifiuto della memoria anteguerra ad una rivalutazione meramente verbale delle costruzioni razionaliste e alla successiva demonizzazione accompagnata dalla loro (finta) ammirazione e alla disordinata e orrenda invasione edilizia del territorio senza alcun disegno urbanistico e sociologico; dalla grande pace e tranquillità di una società di nuova fondazione, alla sotterranea invasione di una criminalità che ha occupato spazi importanti, agevolata dalla mancanza persistente nei tempi di una guida consapevole e ispirata circa il ruolo che la città avrebbe potuto e dovuto interpretare per la sua responsabilità di Capoluogo di Provincia e di seconda città del Lazio; fino alla recente cancellazione della Provincia di Latina per alcune migliaia di kmq di territorio in meno rispetto alla Frosinone meno abitata.

Piccole e intense storie che nessuno ha esaminato nella loro evoluzione, men che meno la dirigenza politica che tutto ha fatto tranne che  autoriflessione: mai un dibattito, mai una occasione diretta da chi ha svolto ruoli di amministrazione. Le eccezioni sono davvero poche e in generale modeste.

D’improvviso, in pochi giorni, a Latina sono avvenuti due episodi che hanno riacceso la voglia di discutere. E naturalmente nessuno di essi viene dal vertice rappresentativo ufficiale. La prima è un dibattito sociologico scaturito da una indagine eseguita a livello universitario sui servizi religiosi della diocesi pontina, indagine che ha portato  inevitabilmente a considerare il tessuto organizzativo e antropologico che costituisce l’abito pontino e di Latina.  Il dibattito si è svolto presso la Curia vescovile di Latina, con la partecipazione del prof. Diotallevi e  di Giuseppe De Rita, presidente del Censis.

De Rita ha svolto un’ampia relazione “storico-sociologica-economica” della città e della sua provincia che sarebbe opportuno che la Curia diffondesse e portasse a conoscenza di settori dell’opinione pubblica più ampi. Due, in particolare, gli aspetti che secondo De Rita hanno caratterizzato la storia di Latina e della società pontina in generale: la dipendenza e la disappartenenza,

Dietro questi due vocaboli si cela una quantità di storie e di fenomeni di trasformazione: dipendenza è intesa nel senso che è mancata la creazione di uno spirito imprenditoriale locale, capace di insediare idee e farle crescere per dare connotazione e “indipendena” creativa alla economia pontina. Quella mancanza ha determinato il ruolo preponderante della Cassa per il Mezzogiorno, con insediamenti importati, che non hanno agevolato la imprenditortia locale, vincolando lo sviluppo economico a dimensioni occupazionali che si fondavano su una massiccia immigrazione, con sconvolgimenti insediativi, educativi, di formazione di melting pot, e mancanza di risorse autonome. Il progressivo invecchiamento delle industrie “globali” le ha portate all’altrettanto progressivo smantellamento, creando un grande buco critico nel tessuto economico pontino. L’evoluizione della cultura industriale alla società dei servizi ha, a sua volta, determinato orientamenti ispirati all’individualismo più che ad un obiettivo prefissato, e da questo sono venute delusioni nel campo della cultura, della educazione urbanistica, dell’aggressività criminale e ad un ruolo marginale come città e sociologicamente da clan.

Tale scollamento è sintetizzato dalla parola disappartenenza, ossia il faticare a riconoscersi non già in conventicole, gruppi di pressione o corporazioni (che non mancano), ma in una “idea di città e di società”, comportando la scomparsa del ruolo guida della cultura, della ricerca storica, dell’aggregazione spontanea  “identitaria”.

città idealiLa seconda occasione cui accennavo è stata la presentazione di un libro che il giornalista-cronista Fabio Isman ha scritto. E’ un bel libro dedicato alle Città Ideali, tra le quali – quasi come contraltare – Isman ha voluto inserire le due delle città di fondazione pontine Latina, appunto, e Sabaudia. Presso la Libreria Feltribelli ha avuto luogo la presentazione che ha suscitato non solo grande interesse per la freschezza del racconto delle città “ideali” italiane visitate e illustrate da Isman attraverso la loro rapida storia di aggregazioni; ma anche dal successivo dibattito affidato a urbanisti, antropologi e politici. Enrico Forte, ad esempio, ha svolto una serrata critica delle mancate scelte di indirizzo e delle privilegiate scelte di corporazione edilizia, che hanno coperto il territorio di una città razionalista della più irrazionale rete di aree- periferia. Nessuna scelta dei ruoili di quartiere, nessuna scelta delle tipologie edilizie, nessuna scelta delle destinazioni ospitali, nulla di nulla. Quella invasione è stata funzionale solo al benessere dei costruttori, che sono da alcuni anni i veri “amministratori” del territorio, che pilotano attraverso accordi con i politici e che creano ricchezza individuale ma pesi ai servizi che dovranno pagare tutti i cittadini, quando gli imprenditori edili avranno venduto le loro caserme, spesso beneficiarie di varianti al Prg disegnate ad hoc. Altro che città ideale.

1 Commento

  • E’ il sentimento delle occasioni mancate, dei problemi non affrontati in tempo perchè non visti o non compresi, del cattivo governo, della politica cieca e egoista, …..è un brutto tempo che crea brutti luoghi e distrugge quelli belli…. cosa poteva diventare la città di Latina? e la campagna? e i piccoli centri storici? chiederselo non serve più …ma se servisse a incoraggiare le demolizioni, le sistemazioni, le manutenzioni allora sarebbe utile.

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