FORMIA/CASTELLONE
ELOGIO DI UN BORGO
Formia è tradizionalmente divisa in due antichi quartieri, o borghi, che hanno lungamente avuto, per secoli, netta separazione amministrativa. Immediatamente prima del 1861 si riunirono nel ritrovato nome classico di Formia (Formiae) di cui sono tuttora specchio ed anima duplice. L’ uno marino (Mola), l’ altro collinare (Castellone), ma con affaccio sul lido di Bbasciammare. Dopo avervi lungamente vissuto, ho lasciato Formia per lavoro, mai abbandonandola del tutto, perché vi conservo antichi amici e interessi legati ai miei studi e alla mia professione.
Questa estate sono tornato a Castellone, per riscoprirne gli antichi sapori e l’ ho trovato un delizioso quartiere “di paese”, emancipato da una riorganizzazione che, se da una parte gli ha tolto alcuni connotati di antichità, dall’ altra gli ha conferito un decoro straordinario, una organizzazione civile che è raro trovare altrove, colori, motivi, disegni, stradine, case, riscoperta di mura poligonali e del cisternone romano, una autentica cattedrale sotto il suolo edificato, secondo la tecnica straordinariamente funzionale e ispirata alla monumentalità dei Romani, quelli “buoni”. E mi è piaciuto rivisitarlo da turista, guardandolo di sera, osservandone il tessuto viario e, soprattutto, cercando di coglierne l atmosfera. Ed ecco quanto mi è venuto di osservare.
Calda sera di un inatteso novembre di mare, di tepore, di cuori liberi. Nessun programma preciso, ma l’ idea di far trascorrere qualche ora – o qualche mezza ora – senza impegni di cliché (il cinema, il bar, un incontro con amici) alla ricerca di cose che non conosciamo, che forse immaginiamo ma non ci azzardiamo a dare per scontate. E così, sono iniziati i classici due passi lungo le viuzze del quartiere medievale-ottocentesco. Anche quell’ andarsene senza meta per vicoli sconosciuti contribuisce a creare una atmosfera alla quale non siamo più abituati, forse, per via dell età, forse per il timore di essere sbirciati da qualche curioso. Ma forse neppure questo è vero.
La verità è che ci si trova bene a perdere tempo da soli, un poco pensando e un poco perdendo tempo, di sera, nelle viuzze di un quartiere medievale-ottocentesco. Accompagna i passi, oltre al tepore della serata che declina verso la notte, un inatteso silenzio che circonda le case pure già affollate, ma dalle quali non esce un grido, né lo stridore di una canzone strillata alla radio, neppure un innocente rimprovero a voce alta, di quelli che si fanno in ogni famiglia che si raccoglie per la notte. I primi passi muovono nei vicoli badando di non fare rumore. Non lo chiede nessuno, sento di doverlo al quartiere. La luce illumina le stradine tortuose e linde che segnano le curve di livello della collina sulla quale sorge il quartiere. È una luce bastante a dare piena l’ immagine degli scorci, dei percorsi, dei piccoli archi gettati da casa a casa a sostegno reciproco, dei palazzotti antichi, accompagnati dalle ombre create dalle lampadine, efficienti ma non cafone, né lampadari falso Ottocento, né lampioni finto-gas. Sole e semplici lampade nate per fare il loro mestiere. E lo fanno bene. Accompagnano con la loro cauta, raffinata e non ingombrante luminosità, la luminosità davvero insolita di strade pulite, sempre pulite, arredate con piante sempreverdi, sempre amorevolmente accudite, con le quali i casigliani fanno omaggio al loro risiedere insieme in quell’ antico borgo e contribuiscono a darne una immagine di vivacità mai impolverata dal tempo. Ai palazzi si susseguono rari negozi anche essi antichi più che vecchi, la pubblicità della mozzarella di bufala scritta a mano, e pochi esercizi pubblici moderni – un bistrot, una trattoria, una pizzeria – o il monumento romano del cisternone che sostiene con la sua volta poderosa e sotterranea la piazzetta Sant’ Anna.
Sono quei passi silenziosi che fanno vedere tutto dolce, tutto sereno, tutto ordinato, o è l’ anima del quartiere che emerge nel silenzio della notte e ci accompagna… Imbocco stradina dietro stradina, scalinatella dietro scalinatella, arco dietro arco, senza sapere dove finirà quella piccola strada, magari in un fondaco chiuso, che ci invita a tornare sui nostri passi. Ed è bello tornare sui nostri passi, allungare il percorso, aiutandoci così a far trascorrere il tempo che manca al rientro. Un seguito di colori rosati, celesti, crema, bianchi, di scale, di discese e di salitelle, di finestrelle illuminate dalle quali non si affaccia nessuno perché la riservatezza è la dote principale del borgo. Non interessa, non deve interessare chi cammini a quell’ ora e perché, e ci si sente davvero liberi, per cogliere quella sensazione di serena gioia, di vibrazioni che ci accompagnano. Nessuna parola – a che servono le parole, quando il silenzio trionfa – qualche foto rubata qua e là, basta questo scenario sul quale si apre, improvviso uno slargo, quasi una terrazza che si spinge tra due alti palazzi invecchiati dal tempo e dalla lontana guerra, aprendo uno squarcio di libertà verso il mare di Scauri e del Garigliano. Qua sotto sta Formia, una parte di Formia, quella che si allinea lungo via Filippo Rubino, e che scende verso piazza Santa Teresa. Ma è già un altra Formia. A me interessa quella del buon odore che aleggia ancora nell’ aria da un piccolo forno che produce tielle e focacce e casatielli e biscotti farciti di mandorle o di marmellata; e quella delle case del borgo, che continuano a sfilare consentendo di coglierne, insieme alle antiche date scolpite sulla chiave di volta del portoncino, la delicatezza cromatica – pastello, acquerello, chissà – le geometrie segnate dalle bianche lesene aggettanti dalle facciate o scolpite sugli angoli che salgono impervi verso il cielo stellato.
“Gliu Palazzo” ha un colore celeste pervinca, e una orgogliosa targa in ceramica con sopra quella scritta, a segnalarne la differenza nobile – nobiltà di denaro prima che di sangue, forse spagnolo – che la porta a distinguersi dalle altre, sollevata da una erta e stretta scalinata di pochi gradini, che individua il suo sollevarsi dal comune basamento. Sono momenti di una grandissima pace, di uno sprigionarsi di amore che non ha bisogno per manifestarsi di altro che continuare a muoversi delicatamente e a camminare, mentre la notte e il suo silenzio calano sui passi che ora cercano di affrettare il rientro e rendere definitiva quella straordinaria confidenza notturna col borgo.
I vicoli di Castellone che percorrevo da ragazzo erano molto più animati. Le architetture, frutto di interventi nei secoli di anonimi capimastri, presentavano le ferite della guerra ed il colore più comune per i muri era il bianco della calce usata per motivi igienici. Tanti erano gli odori: pane appena sfornato, fascine di lentisco, stalle con asini e muli inseparabili aiuti nel lavoro dei contadini.